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         Sole Stella:     more detail
  1. Cenizas del alba (Spanish Edition) by Stella Sole, 1991
  2. Memoirs of Christina Morris by Stella Sole, 2002-12
  3. Memorias De Christina Morris by Stella Sole, 2002-10
  4. I Pianeti della stella Sole (Letture da Le scienze) (Italian Edition)

101. Mediatori Culturali - DIDAweb
Translate this page In nessun testo religioso orientale o occidentale, compresi i 72 Vangeli, trariconosciuti ed apocrifi si parla di cometa o di stella in occasione della
http://www.didaweb.net/mediatori/articolo.php?id_vol=20

102. Impronta Ecologica
Solecome stella e dei suoi fenomeni di attività alla luce delle più recenti
http://www.univ.trieste.it/~eureka/file_htm/attivita/corsi_gruppi2003_2004/corso
Per informazioni e prenotazioni tel. 040/5708101 da lun. a ven. dalle 10:30 alle 12:30 o scrivere a eureka@univ.trieste.it IMPARARE L'ASTRONOMIA
Incontri per insegnanti delle scuole superiori a cura dell'Osservatorio Astronomico di Trieste - INAF
Gli incontri proposti possono essere seguiti come un normale corso di aggiornamento, che ha però il pregio di portare a diretto contatto gli insegnanti e i ricercatori impegnati in temi di punta della ricerca contemporanea.
Per chi lo desiderasse, però, può essere il modo per avvicinarsi all'omonimo progetto "Le stelle vanno a scuola", promosso dall'Osservatorio Astronomico di Trieste, a cui già hanno aderito diverse scuole della Provincia: il progetto offre la possibilità alle classi di partecipare a osservazioni del cielo con collegamento in remoto tra la scuola e telescopi dedicati dell'Osservatorio, e agli insegnanti di essere supportati nella costruzione di percorsi didattici di astronomi e astrofisica.
Gli incontri si svolgeranno presso la sede di EUREKA (c/o ITIS "A. Volta", via Monte Grappa, 1 Aula R12, orario: 17:00 - 19:00).

103. Paradiso-8-mac.txt
La Commedia secondo lÕantica vulgata a cura di Giorgio Petrocchi. Edizione Nazionale della Societ Dantesca Italiana Milano Arnoldo Mondadori Editore, 19667. tre croci, con miglior corso e con
http://world.std.com/~wij/dante/paradiso-8-mac.txt
LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri PARADISO Paradiso á Canto I La gloria di colui che tutto move per lÕuniverso penetra, e risplende in una parte pi e meno altrove. Nel ciel che pi de la sua luce prende fuÕ io, e vidi cose che ridire nŽ sa nŽ pu˜ chi di lˆ s discende; perchŽ appressando sŽ al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non pu˜ ire. Veramente quantÕ io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarˆ ora materia del mio canto. O buono Appollo, a lÕultimo lavoro fammi del tuo valor s“ fatto vaso, come dimandi a dar lÕamato alloro. Infino a qui lÕun giogo di Parnaso assai mi fu; ma or con amendue mՏ uopo intrar ne lÕaringo rimaso. Entra nel petto mio, e spira tue s“ come quando Mars•a traesti de la vagina de le membra sue. O divina virt, se mi ti presti tanto che lÕombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti, vedraÕmi al pi del tuo diletto legno venire, e coronarmi de le foglie che la materia e tu mi farai degno. S“ rade volte, padre, se ne coglie per tr•unfare o cesare o poeta, colpa e vergogna de lÕumane voglie, che parturir letizia in su la lieta delfica de•tˆ dovria la fronda peneia, quando alcun di sŽ asseta. Poca favilla gran fiamma seconda: forse di retro a me con miglior voci si pregherˆ perchŽ Cirra risponda. Surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo; ma da quella che quattro cerchi giugne con tre croci, con miglior corso e con migliore stella esce congiunta, e la mondana cera pi a suo modo tempera e suggella. Fatto avea di lˆ mane e di qua sera tal foce, e quasi tutto era lˆ bianco quello emisperio, e lÕaltra parte nera, quando Beatrice in sul sinistro fianco vidi rivolta e riguardar nel sole: aguglia s“ non li sÕaffisse unquanco. E s“ come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole, cos“ de lÕatto suo, per li occhi infuso ne lÕimagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostrÕ uso. Molto  licito lˆ, che qui non lece a le nostre virt, mercŽ del loco fatto per proprio de lÕumana spece. Io nol soffersi molto, nŽ s“ poco, chÕio nol vedessi sfavillar dintorno, comÕ ferro che bogliente esce del foco; e di sbito parve giorno a giorno essere aggiunto, come quei che puote avesse il ciel dÕun altro sole addorno. Beatrice tutta ne lÕetterne rote fissa con li occhi stava; e io in lei le luci fissi, di lˆ s rimote. Nel suo aspetto tal dentro mi fei, qual si fŽ Glauco nel gustar de lÕerba che Õl fŽ consorto in mar de li altri di. Trasumanar significar per verba non si poria; per˜ lÕessemplo basti a cui esper•enza grazia serba. SÕiÕ era sol di me quel che creasti novellamente, amor che Õl ciel governi, tu Õl sai, che col tuo lume mi levasti. Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sŽ mi fece atteso con lÕarmonia che temperi e discerni, parvemi tanto allor del cielo acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. La novitˆ del suono e Õl grande lume di lor cagion mÕaccesero un disio mai non sentito di cotanto acume. OndÕ ella, che vedea me s“ comÕ io, a qu•etarmi lÕanimo commosso, pria chÕio a dimandar, la bocca aprio e cominci˜: ÇTu stesso ti fai grosso col falso imaginar, s“ che non vedi ci˜ che vedresti se lÕavessi scosso. Tu non seÕ in terra, s“ come tu credi; ma folgore, fuggendo il proprio sito, non corse come tu chÕad esso riediÈ. SÕio fui del primo dubbio disvestito per le sorrise parolette brevi, dentro ad un nuovo pi fuÕ inretito e dissi: ÇGiˆ contento requ•evi di grande ammirazion; ma ora ammiro comÕ io trascenda questi corpi leviÈ. OndÕ ella, appresso dÕun p•o sospiro, li occhi drizz˜ verÕ me con quel sembiante che madre fa sovra figlio deliro, e cominci˜: ÇLe cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo  forma che lÕuniverso a Dio fa simigliante. Qui veggion lÕalte creature lÕorma de lÕetterno valore, il qual  fine al quale  fatta la toccata norma. Ne lÕordine chÕio dico sono accline tutte nature, per diverse sorti, pi al principio loro e men vicine; onde si muovono a diversi porti per lo gran mar de lÕessere, e ciascuna con istinto a lei dato che la porti. Questi ne porta il foco inverÕ la luna; questi neÕ cor mortali  permotore; questi la terra in sŽ stringe e aduna; nŽ pur le creature che son fore dÕintelligenza questÕ arco saetta, ma quelle cÕhanno intelletto e amore. La provedenza, che cotanto assetta, del suo lume fa Õl ciel sempre qu•eto nel qual si volge quel cÕha maggior fretta; e ora l“, come a sito decreto, cen porta la virt di quella corda che ci˜ che scocca drizza in segno lieto. Vero  che, come forma non sÕaccorda molte f•ate a lÕintenzion de lÕarte, perchÕ a risponder la materia  sorda, cos“ da questo corso si diparte talor la creatura, cÕha podere di piegar, cos“ pinta, in altra parte; e s“ come veder si pu˜ cadere foco di nube, s“ lÕimpeto primo lÕatterra torto da falso piacere. Non dei pi ammirar, se bene stimo, lo tuo salir, se non come dÕun rivo se dÕalto monte scende giuso ad imo. Maraviglia sarebbe in te se, privo dÕimpedimento, gi ti fossi assiso, comÕ a terra qu•ete in foco vivoÈ. Quinci rivolse inverÕ lo cielo il viso. Paradiso á Canto II O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi dÕascoltar, seguiti dietro al mio legno che cantando varca, tornate a riveder li vostri liti: non vi mettete in pelago, chŽ forse, perdendo me, rimarreste smarriti. LÕacqua chÕio prendo giˆ mai non si corse; Minerva spira, e conducemi Appollo, e nove Muse mi dimostran lÕOrse. Voialtri pochi che drizzaste il collo per tempo al pan de li angeli, del quale vivesi qui ma non sen vien satollo, metter potete ben per lÕalto sale vostro navigio, servando mio solco dinanzi a lÕacqua che ritorna equale. QueÕ glor•osi che passaro al Colco non sÕammiraron come voi farete, quando Ias—n vider fatto bifolco. La concreata e perpetŸa sete del de•forme regno cen portava veloci quasi come Õl ciel vedete. Beatrice in suso, e io in lei guardava; e forse in tanto in quanto un quadrel posa e vola e da la noce si dischiava, giunto mi vidi ove mirabil cosa mi torse il viso a sŽ; e per˜ quella cui non potea mia cura essere ascosa, volta verÕ me, s“ lieta come bella, ÇDrizza la mente in Dio grataÈ, mi disse, Çche nÕha congiunti con la prima stellaÈ. ParevÕ a me che nube ne coprisse lucida, spessa, solida e pulita, quasi adamante che lo sol ferisse. Per entro sŽ lÕetterna margarita ne ricevette, comÕ acqua recepe raggio di luce permanendo unita. SÕio era corpo, e qui non si concepe comÕ una dimensione altra patio, chÕesser convien se corpo in corpo repe, accender ne dovria pi il disio di veder quella essenza in che si vede come nostra natura e Dio sÕunio. L“ si vedrˆ ci˜ che tenem per fede, non dimostrato, ma fia per sŽ noto a guisa del ver primo che lÕuom crede. Io rispuosi: ÇMadonna, s“ devoto comÕ esser posso pi, ringrazio lui lo qual dal mortal mondo mÕha remoto. Ma ditemi: che son li segni bui di questo corpo, che lˆ giuso in terra fan di Cain favoleggiare altrui?È. Ella sorrise alquanto, e poi ÇSÕelli erra lÕoppin•onÈ, mi disse, ÇdÕi mortali dove chiave di senso non diserra, certo non ti dovrien punger li strali dÕammirazione omai, poi dietro ai sensi vedi che la ragione ha corte lÕali. Ma dimmi quel che tu da te ne pensiÈ. E io: ÇCi˜ che nÕappar qua s diverso credo che fanno i corpi rari e densiÈ. Ed ella: ÇCerto assai vedrai sommerso nel falso il creder tuo, se bene ascolti lÕargomentar chÕio li far˜ avverso. La spera ottava vi dimostra molti lumi, li quali e nel quale e nel quanto notar si posson di diversi volti. Se raro e denso ci˜ facesser tanto, una sola virt sarebbe in tutti, pi e men distributa e altrettanto. Virt diverse esser convegnon frutti di princ“pi formali, e quei, for chÕuno, seguiterieno a tua ragion distrutti. Ancor, se raro fosse di quel bruno cagion che tu dimandi, o dÕoltre in parte fora di sua materia s“ digiuno esto pianeto, o, s“ come comparte lo grasso e Õl magro un corpo, cos“ questo nel suo volume cangerebbe carte. Se Õl primo fosse, fora manifesto ne lÕeclissi del sol, per trasparere lo lume come in altro raro ingesto. Questo non : per˜  da vedere de lÕaltro; e sÕelli avvien chÕio lÕaltro cassi, falsificato fia lo tuo parere. SÕelli  che questo raro non trapassi, esser conviene un termine da onde lo suo contrario pi passar non lassi; e indi lÕaltrui raggio si rifonde cos“ come color torna per vetro lo qual di retro a sŽ piombo nasconde. Or dirai tu chÕel si dimostra tetro ivi lo raggio pi che in altre parti, per esser l“ refratto pi a retro. Da questa instanza pu˜ deliberarti esper•enza, se giˆ mai la provi, chÕesser suol fonte ai rivi di vostrÕ arti. Tre specchi prenderai; e i due rimovi da te dÕun modo, e lÕaltro, pi rimosso, trÕambo li primi li occhi tuoi ritrovi. Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso ti stea un lume che i tre specchi accenda e torni a te da tutti ripercosso. Ben che nel quanto tanto non si stenda la vista pi lontana, l“ vedrai come convien chÕigualmente risplenda. Or, come ai colpi de li caldi rai de la neve riman nudo il suggetto e dal colore e dal freddo primai, cos“ rimaso te ne lÕintelletto voglio informar di luce s“ vivace, che ti tremolerˆ nel suo aspetto. Dentro dal ciel de la divina pace si gira un corpo ne la cui virtute lÕesser di tutto suo contento giace. Lo ciel seguente, cÕha tante vedute, quellÕ esser parte per diverse essenze, da lui distratte e da lui contenute. Li altri giron per varie differenze le distinzion che dentro da sŽ hanno dispongono a lor fini e lor semenze. Questi organi del mondo cos“ vanno, come tu vedi omai, di grado in grado, che di s prendono e di sotto fanno. Riguarda bene omai s“ comÕ io vado per questo loco al vero che disiri, s“ che poi sappi sol tener lo guado. Lo moto e la virt dÕi santi giri, come dal fabbro lÕarte del martello, daÕ beati motor convien che spiri; e Õl ciel cui tanti lumi fanno bello, de la mente profonda che lui volve prende lÕimage e fassene suggello. E come lÕalma dentro a vostra polve per differenti membra e conformate a diverse potenze si risolve, cos“ lÕintelligenza sua bontate multiplicata per le stelle spiega, girando sŽ sovra sua unitate. Virt diversa fa diversa lega col prez•oso corpo chÕella avviva, nel qual, s“ come vita in voi, si lega. Per la natura lieta onde deriva, la virt mista per lo corpo luce come letizia per pupilla viva. Da essa vien ci˜ che da luce a luce par differente, non da denso e raro; essa  formal principio che produce, conforme a sua bontˆ, lo turbo e Õl chiaroÈ. Paradiso á Canto III Quel sol che pria dÕamor mi scald˜ Õl petto, di bella veritˆ mÕavea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto; e io, per confessar corretto e certo me stesso, tanto quanto si convenne levaÕ il capo a proferer pi erto; ma vis•one apparve che ritenne a sŽ me tanto stretto, per vedersi, che di mia confession non mi sovvenne. Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non s“ profonde che i fondi sien persi, tornan dÕi nostri visi le postille debili s“, che perla in bianca fronte non vien men forte a le nostre pupille; tali vidÕ io pi facce a parlar pronte; per chÕio dentro a lÕerror contrario corsi a quel chÕaccese amor tra lÕomo e Õl fonte. Sbito s“ comÕ io di lor mÕaccorsi, quelle stimando specchiati sembianti, per veder di cui fosser, li occhi torsi; e nulla vidi, e ritorsili avanti dritti nel lume de la dolce guida, che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. ÇNon ti maravigliar perchÕ io sorridaÈ, mi disse, Çappresso il tuo pŸeril coto, poi sopra Õl vero ancor lo pi non fida, ma te rivolve, come suole, a v˜to: vere sustanze son ci˜ che tu vedi, qui rilegate per manco di voto. Per˜ parla con esse e odi e credi; chŽ la verace luce che le appaga da sŽ non lascia lor torcer li piediÈ. E io a lÕombra che parea pi vaga di ragionar, drizzaÕmi, e cominciai, quasi comÕ uom cui troppa voglia smaga: ÇO ben creato spirito, che aÕ rai di vita etterna la dolcezza senti che, non gustata, non sÕintende mai, graz•oso mi fia se mi contenti del nome tuo e de la vostra sorteÈ. OndÕ ella, pronta e con occhi ridenti: ÇLa nostra caritˆ non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sŽ tutta sua corte. IÕ fui nel mondo vergine sorella; e se la mente tua ben sŽ riguarda, non mi ti celerˆ lÕesser pi bella, ma riconoscerai chÕiÕ son Piccarda, che, posta qui con questi altri beati, beata sono in la spera pi tarda. Li nostri affetti, che solo infiammati son nel piacer de lo Spirito Santo, letizian del suo ordine formati. E questa sorte che par gi cotanto, per˜ nՏ data, perchŽ fuor negletti li nostri voti, e v˜ti in alcun cantoÈ. OndÕ io a lei: ÇNeÕ mirabili aspetti vostri risplende non so che divino che vi trasmuta daÕ primi concetti: per˜ non fui a rimembrar festino; ma or mÕaiuta ci˜ che tu mi dici, s“ che raffigurar mՏ pi latino. Ma dimmi: voi che siete qui felici, disiderate voi pi alto loco per pi vedere e per pi farvi amici?È. Con quelle altrÕ ombre pria sorrise un poco; da indi mi rispuose tanto lieta, chÕarder parea dÕamor nel primo foco: ÇFrate, la nostra volontˆ qu•eta virt di caritˆ, che fa volerne sol quel chÕavemo, e dÕaltro non ci asseta. Se dis•assimo esser pi superne, foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne; che vedrai non capere in questi giri, sÕessere in caritˆ  qui necesse, e se la sua natura ben rimiri. Anzi  formale ad esto beato esse tenersi dentro a la divina voglia, per chÕuna fansi nostre voglie stesse; s“ che, come noi sem di soglia in soglia per questo regno, a tutto il regno piace comÕ a lo re che Õn suo voler ne Õnvoglia. E Õn la sua volontade  nostra pace: ellÕ  quel mare al qual tutto si move ci˜ chÕella cr•a o che natura faceÈ. Chiaro mi fu allor come ogne dove in cielo  paradiso, etsi la grazia del sommo ben dÕun modo non vi piove. Ma s“ comÕ elli avvien, sÕun cibo sazia e dÕun altro rimane ancor la gola, che quel si chere e di quel si ringrazia, cos“ fecÕ io con atto e con parola, per apprender da lei qual fu la tela onde non trasse infino a co la spuola. ÇPerfetta vita e alto merto inciela donna pi sÈ, mi disse, Ça la cui norma nel vostro mondo gi si veste e vela, perchŽ fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo chÕogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma. Dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggiÕmi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta. Uomini poi, a mal pi chÕa bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. E questÕ altro splendor che ti si mostra da la mia destra parte e che sÕaccende di tutto il lume de la spera nostra, ci˜ chÕio dico di me, di sŽ intende; sorella fu, e cos“ le fu tolta di capo lÕombra de le sacre bende. Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor giˆ mai disciolta. QuestÕ  la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave gener˜ Õl terzo e lÕultima possanzaÈ. Cos“ parlommi, e poi cominci˜ ÔAve, MariaÕ cantando, e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave. La vista mia, che tanto lei seguio quanto possibil fu, poi che la perse, volsesi al segno di maggior disio, e a Beatrice tutta si converse; ma quella folgor˜ nel m•o sguardo s“ che da prima il viso non sofferse; e ci˜ mi fece a dimandar pi tardo. Paradiso á Canto IV Intra due cibi, distanti e moventi dÕun modo, prima si morria di fame, che liberÕ omo lÕun recasse ai denti; s“ si starebbe un agno intra due brame di fieri lupi, igualmente temendo; s“ si starebbe un cane intra due dame: per che, sÕiÕ mi tacea, me non riprendo, da li miei dubbi dÕun modo sospinto, poi chÕera necessario, nŽ commendo. Io mi tacea, ma Õl mio disir dipinto mÕera nel viso, e Õl dimandar con ello, pi caldo assai che per parlar distinto. FŽ s“ Beatrice qual fŽ Dan•ello, Nabuccodonosor levando dÕira, che lÕavea fatto ingiustamente fello; e disse: ÇIo veggio ben come ti tira uno e altro disio, s“ che tua cura sŽ stessa lega s“ che fuor non spira. Tu argomenti: ÒSe Õl buon voler dura, la v•olenza altrui per qual ragione di meritar mi scema la misura?Ó. Ancor di dubitar ti dˆ cagione parer tornarsi lÕanime a le stelle, secondo la sentenza di Platone. Queste son le question che nel tuo velle pontano igualmente; e per˜ pria tratter˜ quella che pi ha di felle. DÕi Serafin colui che pi sÕindia, Mo•s, Samuel, e quel Giovanni che prender vuoli, io dico, non Maria, non hanno in altro cielo i loro scanni che questi spirti che mo tÕappariro, nŽ hanno a lÕesser lor pi o meno anni; ma tutti fanno bello il primo giro, e differentemente han dolce vita per sentir pi e men lÕetterno spiro. Qui si mostraro, non perchŽ sortita sia questa spera lor, ma per far segno de la celest•al cÕha men salita. Cos“ parlar conviensi al vostro ingegno, per˜ che solo da sensato apprende ci˜ che fa poscia dÕintelletto degno. Per questo la Scrittura condescende a vostra facultate, e piedi e mano attribuisce a Dio e altro intende; e Santa Chiesa con aspetto umano Gabr•el e Michel vi rappresenta, e lÕaltro che Tobia rifece sano. Quel che Timeo de lÕanime argomenta non  simile a ci˜ che qui si vede, per˜ che, come dice, par che senta. Dice che lÕalma a la sua stella riede, credendo quella quindi esser decisa quando natura per forma la diede; e forse sua sentenza  dÕaltra guisa che la voce non suona, ed esser puote con intenzion da non esser derisa. SÕelli intende tornare a queste ruote lÕonor de la influenza e Õl biasmo, forse in alcun vero suo arco percuote. Questo principio, male inteso, torse giˆ tutto il mondo quasi, s“ che Giove, Mercurio e Marte a nominar trascorse. LÕaltra dubitazion che ti commove ha men velen, per˜ che sua malizia non ti poria menar da me altrove. Parere ingiusta la nostra giustizia ne li occhi dÕi mortali,  argomento di fede e non dÕeretica nequizia. Ma perchŽ puote vostro accorgimento ben penetrare a questa veritate, come disiri, ti far˜ contento. Se v•olenza  quando quel che pate n•ente conferisce a quel che sforza, non fuor questÕ alme per essa scusate: chŽ volontˆ, se non vuol, non sÕammorza, ma fa come natura face in foco, se mille volte v•olenza il torza. Per che, sÕella si piega assai o poco, segue la forza; e cos“ queste fero possendo rifuggir nel santo loco. Se fosse stato lor volere intero, come tenne Lorenzo in su la grada, e fece Muzio a la sua man severo, cos“ lÕavria ripinte per la strada ondÕ eran tratte, come fuoro sciolte; ma cos“ salda voglia  troppo rada. E per queste parole, se ricolte lÕhai come dei,  lÕargomento casso che tÕavria fatto noia ancor pi volte. Ma or ti sÕattraversa un altro passo dinanzi a li occhi, tal che per te stesso non usciresti: pria saresti lasso. Io tÕho per certo ne la mente messo chÕalma beata non poria mentire, per˜ chՏ sempre al primo vero appresso; e poi potesti da Piccarda udire che lÕaffezion del vel Costanza tenne; s“ chÕella par qui meco contradire. Molte f•ate giˆ, frate, addivenne che, per fuggir periglio, contra grato si fŽ di quel che far non si convenne; come Almeone, che, di ci˜ pregato dal padre suo, la propria madre spense, per non perder pietˆ si fŽ spietato. A questo punto voglio che tu pense che la forza al voler si mischia, e fanno s“ che scusar non si posson lÕoffense. Voglia assoluta non consente al danno; ma consentevi in tanto in quanto teme, se si ritrae, cadere in pi affanno. Per˜, quando Piccarda quello spreme, de la voglia assoluta intende, e io de lÕaltra; s“ che ver diciamo insiemeÈ. Cotal fu lÕondeggiar del santo rio chÕusc“ del fonte ondÕ ogne ver deriva; tal puose in pace uno e altro disio. ÇO amanza del primo amante, o divaÈ, dissÕ io appresso, Çil cui parlar mÕinonda e scalda s“, che pi e pi mÕavviva, non  lÕaffezion mia tanto profonda, che basti a render voi grazia per grazia; ma quei che vede e puote a ci˜ risponda. Io veggio ben che giˆ mai non si sazia nostro intelletto, se Õl ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia. Posasi in esso, come fera in lustra, tosto che giunto lÕha; e giugner puollo: se non, ciascun disio sarebbe frustra. Nasce per quello, a guisa di rampollo, a pi del vero il dubbio; ed  natura chÕal sommo pinge noi di collo in collo. Questo mÕinvita, questo mÕassicura con reverenza, donna, a dimandarvi dÕunÕaltra veritˆ che mՏ oscura. Io voÕ saper se lÕuom pu˜ sodisfarvi ai voti manchi s“ con altri beni, chÕa la vostra statera non sien parviÈ. Beatrice mi guard˜ con li occhi pieni di faville dÕamor cos“ divini, che, vinta, mia virtute di le reni, e quasi mi perdei con li occhi chini. Paradiso á Canto V ÇSÕio ti fiammeggio nel caldo dÕamore di lˆ dal modo che Õn terra si vede, s“ che del viso tuo vinco il valore, non ti maravigliar, chŽ ci˜ procede da perfetto veder, che, come apprende, cos“ nel bene appreso move il piede. Io veggio ben s“ come giˆ resplende ne lÕintelletto tuo lÕetterna luce, che, vista, sola e sempre amore accende; e sÕaltra cosa vostro amor seduce, non  se non di quella alcun vestigio, mal conosciuto, che quivi traluce. Tu vuoÕ saper se con altro servigio, per manco voto, si pu˜ render tanto che lÕanima sicuri di letigioÈ. S“ cominci˜ Beatrice questo canto; e s“ comÕ uom che suo parlar non spezza, continŸ˜ cos“ Õl processo santo: ÇLo maggior don che Dio per sua larghezza fesse creando, e a la sua bontate pi conformato, e quel chÕeÕ pi apprezza, fu de la volontˆ la libertate; di che le creature intelligenti, e tutte e sole, fuoro e son dotate. Or ti parrˆ, se tu quinci argomenti, lÕalto valor del voto, sՏ s“ fatto che Dio consenta quando tu consenti; chŽ, nel fermar tra Dio e lÕomo il patto, vittima fassi di questo tesoro, tal quale io dico; e fassi col suo atto. Dunque che render puossi per ristoro? Se credi bene usar quel cÕhai offerto, di maltolletto vuoÕ far buon lavoro. Tu seÕ omai del maggior punto certo; ma perchŽ Santa Chiesa in ci˜ dispensa, che par contra lo ver chÕiÕ tÕho scoverto, convienti ancor sedere un poco a mensa, per˜ che Õl cibo rigido cÕhai preso, richiede ancora aiuto a tua dispensa. Apri la mente a quel chÕio ti paleso e fermalvi entro; chŽ non fa sc•enza, sanza lo ritenere, avere inteso. Due cose si convegnono a lÕessenza di questo sacrificio: lÕuna  quella di che si fa; lÕaltrÕ  la convenenza. QuestÕ ultima giˆ mai non si cancella se non servata; e intorno di lei s“ preciso di sopra si favella: per˜ necessitato fu a li Ebrei pur lÕofferere, ancor chÕalcuna offerta s“ permutasse, come saver dei. LÕaltra, che per materia tՏ aperta, puote ben esser tal, che non si falla se con altra materia si converta. Ma non trasmuti carco a la sua spalla per suo arbitrio alcun, sanza la volta e de la chiave bianca e de la gialla; e ogne permutanza credi stolta, se la cosa dimessa in la sorpresa come Õl quattro nel sei non  raccolta. Per˜ qualunque cosa tanto pesa per suo valor che tragga ogne bilancia, sodisfar non si pu˜ con altra spesa. Non prendan li mortali il voto a ciancia; siate fedeli, e a ci˜ far non bieci, come Iept a la sua prima mancia; cui pi si convenia dicer ÔMal feciÕ, che, servando, far peggio; e cos“ stolto ritrovar puoi il gran duca deÕ Greci, onde pianse Efignia il suo bel volto, e fŽ pianger di sŽ i folli e i savi chÕudir parlar di cos“ fatto c—lto. Siate, Cristiani, a muovervi pi gravi: non siate come penna ad ogne vento, e non crediate chÕogne acqua vi lavi. Avete il novo e Õl vecchio Testamento, e Õl pastor de la Chiesa che vi guida; questo vi basti a vostro salvamento. Se mala cupidigia altro vi grida, uomini siate, e non pecore matte, s“ che Õl Giudeo di voi tra voi non rida! Non fate comÕ agnel che lascia il latte de la sua madre, e semplice e lascivo seco medesmo a suo piacer combatte!È. Cos“ Beatrice a me comÕ •o scrivo; poi si rivolse tutta dis•ante a quella parte ove Õl mondo  pi vivo. Lo suo tacere e Õl trasmutar sembiante puoser silenzio al mio cupido ingegno, che giˆ nuove questioni avea davante; e s“ come saetta che nel segno percuote pria che sia la corda queta, cos“ corremmo nel secondo regno. Quivi la donna mia vidÕ io s“ lieta, come nel lume di quel ciel si mise, che pi lucente se ne fŽ Õl pianeta. E se la stella si cambi˜ e rise, qual mi fecÕ io che pur da mia natura trasmutabile son per tutte guise! Come Õn peschiera chՏ tranquilla e pura traggonsi i pesci a ci˜ che vien di fori per modo che lo stimin lor pastura, s“ vidÕ io ben pi di mille splendori trarsi verÕ noi, e in ciascun sÕudia: ÇEcco chi crescerˆ li nostri amoriÈ. E s“ come ciascuno a noi ven“a, vedeasi lÕombra piena di letizia nel folg—r chiaro che di lei uscia. Pensa, lettor, se quel che qui sÕinizia non procedesse, come tu avresti di pi savere angosciosa carizia; e per te vederai come da questi mÕera in disio dÕudir lor condizioni, s“ come a li occhi mi fur manifesti. ÇO bene nato a cui veder li troni del tr•unfo etternal concede grazia prima che la milizia sÕabbandoni, del lume che per tutto il ciel si spazia noi semo accesi; e per˜, se disii di noi chiarirti, a tuo piacer ti saziaÈ. Cos“ da un di quelli spirti pii detto mi fu; e da Beatrice: ÇD“, d“ sicuramente, e credi come a diiÈ. ÇIo veggio ben s“ come tu tÕannidi nel proprio lume, e che de li occhi il traggi, perchÕ eÕ corusca s“ come tu ridi; ma non so chi tu seÕ, nŽ perchŽ aggi, anima degna, il grado de la spera che si vela aÕ mortai con altrui raggiÈ. Questo dissÕ io diritto a la lumera che pria mÕavea parlato; ondÕ ella fessi lucente pi assai di quel chÕellÕ era. S“ come il sol che si cela elli stessi per troppa luce, come Õl caldo ha r—se le temperanze dÕi vapori spessi, per pi letizia s“ mi si nascose dentro al suo raggio la figura santa; e cos“ chiusa chiusa mi rispuose nel modo che Õl seguente canto canta. Paradiso á Canto VI ÇPoscia che Costantin lÕaquila volse contrÕ al corso del ciel, chÕella seguio dietro a lÕantico che Lavina tolse, cento e centÕ anni e pi lÕuccel di Dio ne lo stremo dÕEuropa si ritenne, vicino aÕ monti deÕ quai prima usc“o; e sotto lÕombra de le sacre penne govern˜ Õl mondo l“ di mano in mano, e, s“ cangiando, in su la mia pervenne. Cesare fui e son Iustin•ano, che, per voler del primo amor chÕiÕ sento, dÕentro le leggi trassi il troppo e Õl vano. E prima chÕio a lÕovra fossi attento, una natura in Cristo esser, non pie, credea, e di tal fede era contento; ma Õl benedetto Agapito, che fue sommo pastore, a la fede sincera mi dirizz˜ con le parole sue. Io li credetti; e ci˜ che Õn sua fede era, veggÕ io or chiaro s“, come tu vedi ogni contradizione e falsa e vera. Tosto che con la Chiesa mossi i piedi, a Dio per grazia piacque di spirarmi lÕalto lavoro, e tutto Õn lui mi diedi; e al mio Belisar commendai lÕarmi, cui la destra del ciel fu s“ congiunta, che segno fu chÕiÕ dovessi posarmi. Or qui a la question prima sÕappunta la mia risposta; ma sua condizione mi stringe a seguitare alcuna giunta, perchŽ tu veggi con quanta ragione si move contrÕ al sacrosanto segno e chi Õl sÕappropria e chi a lui sÕoppone. Vedi quanta virt lÕha fatto degno di reverenza; e cominci˜ da lÕora che Pallante mor“ per darli regno. Tu sai chÕel fece in Alba sua dimora per trecento anni e oltre, infino al fine che i tre aÕ tre pugnar per lui ancora. E sai chÕel fŽ dal mal de le Sabine al dolor di Lucrezia in sette regi, vincendo intorno le genti vicine. Sai quel chÕel fŽ portato da li egregi Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, incontro a li altri principi e collegi; onde Torquato e Quinzio, che dal cirro negletto fu nomato, i Deci e Õ Fabi ebber la fama che volontier mirro. Esso atterr˜ lÕorgoglio de li Arˆbi che di retro ad Anibale passaro lÕalpestre rocce, Po, di che tu labi. SottÕ esso giovanetti tr•unfaro Scip•one e Pompeo; e a quel colle sotto Õl qual tu nascesti parve amaro. Poi, presso al tempo che tutto Õl ciel volle redur lo mondo a suo modo sereno, Cesare per voler di Roma il tolle. E quel che fŽ da Varo infino a Reno, Isara vide ed Era e vide Senna e ogne valle onde Rodano  pieno. Quel che fŽ poi chÕelli usc“ di Ravenna e salt˜ Rubicon, fu di tal volo, che nol seguiteria lingua nŽ penna. InverÕ la Spagna rivolse lo stuolo, poi verÕ Durazzo, e Farsalia percosse s“ chÕal Nil caldo si sent“ del duolo. Antandro e Simeonta, onde si mosse, rivide e lˆ dovÕ Ettore si cuba; e mal per Tolomeo poscia si scosse. Da indi scese folgorando a Iuba; onde si volse nel vostro occidente, ove sentia la pompeana tuba. Di quel che fŽ col baiulo seguente, Bruto con Cassio ne lÕinferno latra, e Modena e Perugia fu dolente. Piangene ancor la trista Cleopatra, che, fuggendoli innanzi, dal colubro la morte prese subitana e atra. Con costui corse infino al lito rubro; con costui puose il mondo in tanta pace, che fu serrato a Giano il suo delubro. Ma ci˜ che Õl segno che parlar mi face fatto avea prima e poi era fatturo per lo regno mortal chÕa lui soggiace, diventa in apparenza poco e scuro, se in mano al terzo Cesare si mira con occhio chiaro e con affetto puro; chŽ la viva giustizia che mi spira, li concedette, in mano a quel chÕiÕ dico, gloria di far vendetta a la sua ira. Or qui tÕammira in ci˜ chÕio ti repl“co: poscia con Tito a far vendetta corse de la vendetta del peccato antico. E quando il dente longobardo morse la Santa Chiesa, sotto le sue ali Carlo Magno, vincendo, la soccorse. Omai puoi giudicar di quei cotali chÕio accusai di sopra e di lor falli, che son cagion di tutti vostri mali. LÕuno al pubblico segno i gigli gialli oppone, e lÕaltro appropria quello a parte, s“ chՏ forte a veder chi pi si falli. Faccian li Ghibellin, faccian lor arte sottÕ altro segno, chŽ mal segue quello sempre chi la giustizia e lui diparte; e non lÕabbatta esto Carlo novello coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli chÕa pi alto leon trasser lo vello. Molte f•ate giˆ pianser li figli per la colpa del padre, e non si creda che Dio trasmuti lÕarmi per suoi gigli! Questa picciola stella si correda dÕi buoni spirti che son stati attivi perchŽ onore e fama li succeda: e quando li disiri poggian quivi, s“ disv•ando, pur convien che i raggi del vero amore in s poggin men vivi. Ma nel commensurar dÕi nostri gaggi col merto  parte di nostra letizia, perchŽ non li vedem minor nŽ maggi. Quindi addolcisce la viva giustizia in noi lÕaffetto s“, che non si puote torcer giˆ mai ad alcuna nequizia. Diverse voci fanno dolci note; cos“ diversi scanni in nostra vita rendon dolce armonia tra queste rote. E dentro a la presente margarita luce la luce di Romeo, di cui fu lÕovra grande e bella mal gradita. Ma i Provenzai che fecer contra lui non hanno riso; e per˜ mal cammina qual si fa danno del ben fare altrui. Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, Ramondo Beringhiere, e ci˜ li fece Romeo, persona um“le e peregrina. E poi il mosser le parole biece a dimandar ragione a questo giusto, che li assegn˜ sette e cinque per diece, indi partissi povero e vetusto; e se Õl mondo sapesse il cor chÕelli ebbe mendicando sua vita a frusto a frusto, assai lo loda, e pi lo loderebbeÈ. Paradiso á Canto VII ÇOsanna, sanctus Deus saba˜th, superillustrans claritate tua felices ignes horum malac˜th!È. Cos“, volgendosi a la nota sua, fu viso a me cantare essa sustanza, sopra la qual doppio lume sÕaddua; ed essa e lÕaltre mossero a sua danza, e quasi velocissime faville mi si velar di sbita distanza. Io dubitava e dicea ÔDille, dille!Õ fra me, ÔdilleÕ dicea, Ôa la mia donna che mi diseta con le dolci stilleÕ. Ma quella reverenza che sÕindonna di tutto me, pur per Be e per ice, mi richinava come lÕuom chÕassonna. Poco sofferse me cotal Beatrice e cominci˜, raggiandomi dÕun riso tal, che nel foco faria lÕuom felice: ÇSecondo mio infallibile avviso, come giusta vendetta giustamente punita fosse, tÕha in pensier miso; ma io ti solver˜ tosto la mente; e tu ascolta, chŽ le mie parole di gran sentenza ti faran presente. Per non soffrire a la virt che vole freno a suo prode, quellÕ uom che non nacque, dannando sŽ, dann˜ tutta sua prole; onde lÕumana specie inferma giacque gi per secoli molti in grande errore, fin chÕal Verbo di Dio discender piacque uÕ la natura, che dal suo fattore sÕera allungata, un“ a sŽ in persona con lÕatto sol del suo etterno amore. Or drizza il viso a quel chÕor si ragiona: questa natura al suo fattore unita, qual fu creata, fu sincera e buona; ma per sŽ stessa pur fu ella sbandita di paradiso, per˜ che si torse da via di veritˆ e da sua vita. La pena dunque che la croce porse sÕa la natura assunta si misura, nulla giˆ mai s“ giustamente morse; e cos“ nulla fu di tanta ingiura, guardando a la persona che sofferse, in che era contratta tal natura. Per˜ dÕun atto uscir cose diverse: chÕa Dio e aÕ Giudei piacque una morte; per lei trem˜ la terra e Õl ciel sÕaperse. Non ti dee oramai parer pi forte, quando si dice che giusta vendetta poscia vengiata fu da giusta corte. Ma io veggiÕ or la tua mente ristretta di pensiero in pensier dentro ad un nodo, del qual con gran disio solver sÕaspetta. Tu dici: ÒBen discerno ci˜ chÕiÕ odo; ma perchŽ Dio volesse, mՏ occulto, a nostra redenzion pur questo modoÓ. Questo decreto, frate, sta sepulto a li occhi di ciascuno il cui ingegno ne la fiamma dÕamor non  adulto. Veramente, per˜ chÕa questo segno molto si mira e poco si discerne, dir˜ perchŽ tal modo fu pi degno. La divina bontˆ, che da sŽ sperne ogne livore, ardendo in sŽ, sfavilla s“ che dispiega le bellezze etterne. Ci˜ che da lei sanza mezzo distilla non ha poi fine, perchŽ non si move la sua imprenta quandÕ ella sigilla. Ci˜ che da essa sanza mezzo piove libero  tutto, perchŽ non soggiace a la virtute de le cose nove. Pi lՏ conforme, e per˜ pi le piace; chŽ lÕardor santo chÕogne cosa raggia, ne la pi somigliante  pi vivace. Di tutte queste dote sÕavvantaggia lÕumana creatura, e sÕuna manca, di sua nobilitˆ convien che caggia. Solo il peccato  quel che la disfranca e falla dissim“le al sommo bene, per che del lume suo poco sÕimbianca; e in sua dignitˆ mai non rivene, se non r•empie, dove colpa v˜ta, contra mal dilettar con giuste pene. Vostra natura, quando pecc˜ tota nel seme suo, da queste dignitadi, come di paradiso, fu remota; nŽ ricovrar potiensi, se tu badi ben sottilmente, per alcuna via, sanza passar per un di questi guadi: o che Dio solo per sua cortesia dimesso avesse, o che lÕuom per sŽ isso avesse sodisfatto a sua follia. Ficca mo lÕocchio per entro lÕabisso de lÕetterno consiglio, quanto puoi al mio parlar distrettamente fisso. Non potea lÕuomo neÕ termini suoi mai sodisfar, per non potere ir giuso con umiltate obed•endo poi, quanto disobediendo intese ir suso; e questa  la cagion per che lÕuom fue da poter sodisfar per sŽ dischiuso. Dunque a Dio convenia con le vie sue riparar lÕomo a sua intera vita, dico con lÕuna, o ver con amendue. Ma perchŽ lÕovra tanto  pi gradita da lÕoperante, quanto pi appresenta de la bontˆ del core ondÕ ellÕ  uscita, la divina bontˆ che Õl mondo imprenta, di proceder per tutte le sue vie, a rilevarvi suso, fu contenta. NŽ tra lÕultima notte e Õl primo die s“ alto o s“ magnifico processo, o per lÕuna o per lÕaltra, fu o fie: chŽ pi largo fu Dio a dar sŽ stesso per far lÕuom sufficiente a rilevarsi, che sÕelli avesse sol da sŽ dimesso; e tutti li altri modi erano scarsi a la giustizia, se Õl Figliuol di Dio non fosse umil•ato ad incarnarsi. Or per empierti bene ogne disio, ritorno a dichiararti in alcun loco, perchŽ tu veggi l“ cos“ comÕ io. Tu dici: ÒIo veggio lÕacqua, io veggio il foco, lÕaere e la terra e tutte lor misture venire a corruzione, e durar poco; e queste cose pur furon creature; per che, se ci˜ chՏ detto  stato vero, esser dovrien da corruzion sicureÓ. Li angeli, frate, e Õl paese sincero nel qual tu seÕ, dir si posson creati, s“ come sono, in loro essere intero; ma li alimenti che tu hai nomati e quelle cose che di lor si fanno da creata virt sono informati. Creata fu la materia chÕelli hanno; creata fu la virt informante in queste stelle che Õntorno a lor vanno. LÕanima dÕogne bruto e de le piante di complession potenz•ata tira lo raggio e Õl moto de le luci sante; ma vostra vita sanza mezzo spira la somma beninanza, e la innamora di sŽ s“ che poi sempre la disira. E quinci puoi argomentare ancora vostra resurrezion, se tu ripensi come lÕumana carne fessi allora che li primi parenti intrambo fensiÈ. Paradiso á Canto VIII Solea creder lo mondo in suo periclo che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo; per che non pur a lei faceano onore di sacrificio e di votivo grido le genti antiche ne lÕantico errore; ma D•one onoravano e Cupido, quella per madre sua, questo per figlio, e dicean chÕel sedette in grembo a Dido; e da costei ondÕ io principio piglio pigliavano il vocabol de la stella che Õl sol vagheggia or da coppa or da ciglio. Io non mÕaccorsi del salire in ella; ma dÕesservi entro mi fŽ assai fede la donna mia chÕiÕ vidi far pi bella. E come in fiamma favilla si vede, e come in voce voce si discerne, quandÕ una  ferma e altra va e riede, vidÕ io in essa luce altre lucerne muoversi in giro pi e men correnti, al modo, credo, di lor viste interne. Di fredda nube non disceser venti, o visibili o no, tanto festini, che non paressero impediti e lenti a chi avesse quei lumi divini veduti a noi venir, lasciando il giro pria cominciato in li alti Serafini; e dentro a quei che pi innanzi appariro sonava ÔOsannaÕ s“, che unque poi di r•udir non fui sanza disiro. Indi si fece lÕun pi presso a noi e solo incominci˜: ÇTutti sem presti al tuo piacer, perchŽ di noi ti gioi. Noi ci volgiam coi principi celesti dÕun giro e dÕun girare e dÕuna sete, ai quali tu del mondo giˆ dicesti: ÔVoi che Õntendendo il terzo ciel moveteÕ; e sem s“ pien dÕamor, che, per piacerti, non fia men dolce un poco di qu•eteÈ. Poscia che li occhi miei si fuoro offerti a la mia donna reverenti, ed essa fatti li avea di sŽ contenti e certi, rivolsersi a la luce che promessa tanto sÕavea, e ÇDeh, chi siete?È fue la voce mia di grande affetto impressa. E quanta e quale vidÕ io lei far pie per allegrezza nova che sÕaccrebbe, quando parlai, a lÕallegrezze sue! Cos“ fatta, mi disse: ÇIl mondo mÕebbe gi poco tempo; e se pi fosse stato, molto sarˆ di mal, che non sarebbe. La mia letizia mi ti tien celato che mi raggia dintorno e mi nasconde quasi animal di sua seta fasciato. Assai mÕamasti, e avesti ben onde; che sÕio fossi gi stato, io ti mostrava di mio amor pi oltre che le fronde. Quella sinistra riva che si lava di Rodano poi chՏ misto con Sorga, per suo segnore a tempo mÕaspettava, e quel corno dÕAusonia che sÕimborga di Bari e di Gaeta e di Catona, da ove Tronto e Verde in mare sgorga. Fulgeami giˆ in fronte la corona di quella terra che Õl Danubio riga poi che le ripe tedesche abbandona. E la bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro, sopra Õl golfo che riceve da Euro maggior briga, non per Tifeo ma per nascente solfo, attesi avrebbe li suoi regi ancora, nati per me di Carlo e di Ridolfo, se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: ÒMora, mora!Ó. E se mio frate questo antivedesse, lÕavara povertˆ di Catalogna giˆ fuggeria, perchŽ non li offendesse; chŽ veramente proveder bisogna per lui, o per altrui, s“ chÕa sua barca carcata pi dÕincarco non si pogna. La sua natura, che di larga parca discese, avria mestier di tal milizia che non curasse di mettere in arcaÈ. ÇPer˜ chÕiÕ credo che lÕalta letizia che Õl tuo parlar mÕinfonde, segnor mio, lˆ Õve ogne ben si termina e sÕinizia, per te si veggia come la veggÕ io, grata mՏ pi; e anco questÕ ho caro perchŽ Õl discerni rimirando in Dio. Fatto mÕhai lieto, e cos“ mi fa chiaro, poi che, parlando, a dubitar mÕhai mosso comÕ esser pu˜, di dolce seme, amaroÈ. Questo io a lui; ed elli a me: ÇSÕio posso mostrarti un vero, a quel che tu dimandi terrai lo viso come tien lo dosso. Lo ben che tutto il regno che tu scandi volge e contenta, fa esser virtute sua provedenza in questi corpi grandi. E non pur le nature provedute sono in la mente chՏ da sŽ perfetta, ma esse insieme con la lor salute: per che quantunque questÕ arco saetta disposto cade a proveduto fine, s“ come cosa in suo segno diretta. Se ci˜ non fosse, il ciel che tu cammine producerebbe s“ li suoi effetti, che non sarebbero arti, ma ruine; e ci˜ esser non pu˜, se li Õntelletti che muovon queste stelle non son manchi, e manco il primo, che non li ha perfetti. VuoÕ tu che questo ver pi ti sÕimbianchi?È. E io: ÇNon giˆ; chŽ impossibil veggio che la natura, in quel chՏ uopo, stanchiÈ. OndÕ elli ancora: ÇOr d“: sarebbe il peggio per lÕomo in terra, se non fosse cive?È. ÇS“È, rispuosÕ io; Çe qui ragion non cheggioÈ. ÇE puotÕ elli esser, se gi non si vive diversamente per diversi offici? Non, se Õl maestro vostro ben vi scriveÈ. S“ venne deducendo infino a quici; poscia conchiuse: ÇDunque esser diverse convien di vostri effetti le radici: per chÕun nasce Solone e altro Serse, altro Melchisedch e altro quello che, volando per lÕaere, il figlio perse. La circular natura, chՏ suggello a la cera mortal, fa ben sua arte, ma non distingue lÕun da lÕaltro ostello. Quinci addivien chÕEsa si diparte per seme da Iac˜b; e vien Quirino da s“ vil padre, che si rende a Marte. Natura generata il suo cammino simil farebbe sempre aÕ generanti, se non vincesse il proveder divino. Or quel che tÕera dietro tՏ davanti: ma perchŽ sappi che di te mi giova, un corollario voglio che tÕammanti. Sempre natura, se fortuna trova discorde a sŽ, comÕ ogne altra semente fuor di sua reg•on, fa mala prova. E se Õl mondo lˆ gi ponesse mente al fondamento che natura pone, seguendo lui, avria buona la gente. Ma voi torcete a la relig•one tal che fia nato a cignersi la spada, e fate re di tal chՏ da sermone; onde la traccia vostra  fuor di stradaÈ. Paradiso á Canto IX Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza, mÕebbe chiarito, mi narr˜ li Õnganni che ricever dovea la sua semenza; ma disse: ÇTaci e lascia muover li anniÈ; s“ chÕio non posso dir se non che pianto giusto verrˆ di retro ai vostri danni. E giˆ la vita di quel lume santo rivolta sÕera al Sol che la r•empie come quel ben chÕa ogne cosa  tanto. Ahi anime ingannate e fatture empie, che da s“ fatto ben torcete i cuori, drizzando in vanitˆ le vostre tempie! Ed ecco un altro di quelli splendori verÕ me si fece, e Õl suo voler piacermi significava nel chiarir di fori. Li occhi di B‘atrice, chÕeran fermi sovra me, come pria, di caro assenso al mio disio certificato fermi. ÇDeh, metti al mio voler tosto compenso, beato spirtoÈ, dissi, Çe fammi prova chÕiÕ possa in te refletter quel chÕio penso!È. Onde la luce che mÕera ancor nova, del suo profondo, ondÕ ella pria cantava, seguette come a cui di ben far giova: ÇIn quella parte de la terra prava italica che siede tra R•alto e le fontane di Brenta e di Piava, si leva un colle, e non surge moltÕ alto, lˆ onde scese giˆ una facella che fece a la contrada un grande assalto. DÕuna radice nacqui e io ed ella: Cunizza fui chiamata, e qui refulgo perchŽ mi vinse il lume dÕesta stella; ma lietamente a me medesma indulgo la cagion di mia sorte, e non mi noia; che parria forse forte al vostro vulgo. Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che pi mՏ propinqua, grande fama rimase; e pria che moia, questo centesimo anno ancor sÕincinqua: vedi se far si dee lÕomo eccellente, s“ chÕaltra vita la prima relinqua. E ci˜ non pensa la turba presente che Tagliamento e Adice richiude, nŽ per esser battuta ancor si pente; ma tosto fia che Padova al palude cangerˆ lÕacqua che Vincenza bagna, per essere al dover le genti crude; e dove Sile e Cagnan sÕaccompagna, tal signoreggia e va con la testa alta, che giˆ per lui carpir si fa la ragna. Piangerˆ Feltro ancora la difalta de lÕempio suo pastor, che sarˆ sconcia s“, che per simil non sÕentr˜ in malta. Troppo sarebbe larga la bigoncia che ricevesse il sangue ferrarese, e stanco chi Õl pesasse a oncia a oncia, che donerˆ questo prete cortese per mostrarsi di parte; e cotai doni conformi fieno al viver del paese. S sono specchi, voi dicete Troni, onde refulge a noi Dio giudicante; s“ che questi parlar ne paion buoniÈ. Qui si tacette; e fecemi sembiante che fosse ad altro volta, per la rota in che si mise comÕ era davante. LÕaltra letizia, che mÕera giˆ nota per cara cosa, mi si fece in vista qual fin balasso in che lo sol percuota. Per letiziar lˆ s fulgor sÕacquista, s“ come riso qui; ma gi sÕabbuia lÕombra di fuor, come la mente  trista. ÇDio vede tutto, e tuo veder sÕinluiaÈ, dissÕ io, Çbeato spirto, s“ che nulla voglia di sŽ a te puotÕ esser fuia. Dunque la voce tua, che Õl ciel trastulla sempre col canto di quei fuochi pii che di sei ali facen la coculla, perchŽ non satisface aÕ miei disii? Giˆ non attendereÕ io tua dimanda, sÕio mÕintuassi, come tu tÕinmiiÈ. ÇLa maggior valle in che lÕacqua si spandaÈ, incominciaro allor le sue parole, Çfuor di quel mar che la terra inghirlanda, tra Õ discordanti liti contra Õl sole tanto sen va, che fa merid•ano lˆ dove lÕorizzonte pria far suole. Di quella valle fuÕ io litorano tra Ebro e Macra, che per cammin corto parte lo Genovese dal Toscano. Ad un occaso quasi e ad un orto Buggea siede e la terra ondÕ io fui, che fŽ del sangue suo giˆ caldo il porto. Folco mi disse quella gente a cui fu noto il nome mio; e questo cielo di me sÕimprenta, comÕ io feÕ di lui; chŽ pi non arse la figlia di Belo, noiando e a Sicheo e a Creusa, di me, infin che si convenne al pelo; nŽ quella Rodop‘a che delusa fu da Demofoonte, nŽ Alcide quando Iole nel core ebbe rinchiusa. Non per˜ qui si pente, ma si ride, non de la colpa, chÕa mente non torna, ma del valor chÕordin˜ e provide. Qui si rimira ne lÕarte chÕaddorna cotanto affetto, e discernesi Õl bene per che Õl mondo di s quel di gi torna. Ma perchŽ tutte le tue voglie piene ten porti che son nate in questa spera, proceder ancor oltre mi convene. Tu vuoÕ saper chi  in questa lumera che qui appresso me cos“ scintilla come raggio di sole in acqua mera. Or sappi che lˆ entro si tranquilla Raab; e a nostrÕ ordine congiunta, di lei nel sommo grado si sigilla. Da questo cielo, in cui lÕombra sÕappunta che Õl vostro mondo face, pria chÕaltrÕ alma del tr•unfo di Cristo fu assunta. Ben si convenne lei lasciar per palma in alcun cielo de lÕalta vittoria che sÕacquist˜ con lÕuna e lÕaltra palma, perchÕ ella favor˜ la prima gloria di IosŸ in su la Terra Santa, che poco tocca al papa la memoria. La tua cittˆ, che di colui  pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui  la Õnvidia tanto pianta, produce e spande il maladetto fiore cÕha disv•ate le pecore e li agni, per˜ che fatto ha lupo del pastore. Per questo lÕEvangelio e i dottor magni son derelitti, e solo ai Decretali si studia, s“ che pare aÕ lor vivagni. A questo intende il papa e Õ cardinali; non vanno i lor pensieri a Nazarette, lˆ dove Gabr•ello aperse lÕali. Ma Vaticano e lÕaltre parti elette di Roma che son state cimitero a la milizia che Pietro seguette, tosto libere fien de lÕavolteroÈ. Paradiso á Canto X Guardando nel suo Figlio con lÕAmore che lÕuno e lÕaltro etternalmente spira, lo primo e ineffabile Valore quanto per mente e per loco si gira con tantÕ ordine fŽ, chÕesser non puote sanza gustar di lui chi ci˜ rimira. Leva dunque, lettore, a lÕalte rote meco la vista, dritto a quella parte dove lÕun moto e lÕaltro si percuote; e l“ comincia a vagheggiar ne lÕarte di quel maestro che dentro a sŽ lÕama, tanto che mai da lei lÕocchio non parte. Vedi come da indi si dirama lÕoblico cerchio che i pianeti porta, per sodisfare al mondo che li chiama. Che se la strada lor non fosse torta, molta virt nel ciel sarebbe in vano, e quasi ogne potenza qua gi morta; e se dal dritto pi o men lontano fosse Õl partire, assai sarebbe manco e gi e s de lÕordine mondano. Or ti riman, lettor, sovra Õl tuo banco, dietro pensando a ci˜ che si preliba, sÕesser vuoi lieto assai prima che stanco. Messo tÕho innanzi: omai per te ti ciba; chŽ a sŽ torce tutta la mia cura quella materia ondÕ io son fatto scriba. Lo ministro maggior de la natura, che del valor del ciel lo mondo imprenta e col suo lume il tempo ne misura, con quella parte che s si rammenta congiunto, si girava per le spire in che pi tosto ognora sÕappresenta; e io era con lui; ma del salire non mÕaccorsÕ io, se non comÕ uom sÕaccorge, anzi Õl primo pensier, del suo venire. é B‘atrice quella che s“ scorge di bene in meglio, s“ subitamente che lÕatto suo per tempo non si sporge. QuantÕ esser convenia da sŽ lucente quel chÕera dentro al sol dovÕ io entraÕmi, non per color, ma per lume parvente! PerchÕ io lo Õngegno e lÕarte e lÕuso chiami, s“ nol direi che mai sÕimaginasse; ma creder puossi e di veder si brami. E se le fantasie nostre son basse a tanta altezza, non  maraviglia; chŽ sopra Õl sol non fu occhio chÕandasse. Tal era quivi la quarta famiglia de lÕalto Padre, che sempre la sazia, mostrando come spira e come figlia. E B‘atrice cominci˜: ÇRingrazia, ringrazia il Sol de li angeli, chÕa questo sensibil tÕha levato per sua graziaÈ. Cor di mortal non fu mai s“ digesto a divozione e a rendersi a Dio con tutto Õl suo gradir cotanto presto, come a quelle parole mi fecÕ io; e s“ tutto Õl mio amore in lui si mise, che B‘atrice ecliss˜ ne lÕoblio. Non le dispiacque; ma s“ se ne rise, che lo splendor de li occhi suoi ridenti mia mente unita in pi cose divise. Io vidi pi folg—r vivi e vincenti far di noi centro e di sŽ far corona, pi dolci in voce che in vista lucenti: cos“ cinger la figlia di Latona vedem talvolta, quando lÕaere  pregno, s“ che ritenga il fil che fa la zona. Ne la corte del cielo, ondÕ io rivegno, si trovan molte gioie care e belle tanto che non si posson trar del regno; e Õl canto di quei lumi era di quelle; chi non sÕimpenna s“ che lˆ s voli, dal muto aspetti quindi le novelle. Poi, s“ cantando, quelli ardenti soli si fuor girati intorno a noi tre volte, come stelle vicine aÕ fermi poli, donne mi parver, non da ballo sciolte, ma che sÕarrestin tacite, ascoltando fin che le nove note hanno ricolte. E dentro a lÕun sentiÕ cominciar: ÇQuando lo raggio de la grazia, onde sÕaccende verace amore e che poi cresce amando, multiplicato in te tanto resplende, che ti conduce su per quella scala uÕ sanza risalir nessun discende; qual ti negasse il vin de la sua fiala per la tua sete, in libertˆ non fora se non comÕ acqua chÕal mar non si cala. Tu vuoÕ saper di quai piante sÕinfiora questa ghirlanda che Õntorno vagheggia la bella donna chÕal ciel tÕavvalora. Io fui de li agni de la santa greggia che Domenico mena per cammino uÕ ben sÕimpingua se non si vaneggia. Questi che mՏ a destra pi vicino, frate e maestro fummi, ed esso Alberto  di Cologna, e io Thomas dÕAquino. Se s“ di tutti li altri esser vuoÕ certo, di retro al mio parlar ten vien col viso girando su per lo beato serto. QuellÕ altro fiammeggiare esce del riso di Graz•an, che lÕuno e lÕaltro foro aiut˜ s“ che piace in paradiso. LÕaltro chÕappresso addorna il nostro coro, quel Pietro fu che con la poverella offerse a Santa Chiesa suo tesoro. La quinta luce, chՏ tra noi pi bella, spira di tale amor, che tutto Õl mondo lˆ gi ne gola di saper novella: entro vՏ lÕalta mente uÕ s“ profondo saver fu messo, che, se Õl vero  vero, a veder tanto non surse il secondo. Appresso vedi il lume di quel cero che gi in carne pi a dentro vide lÕangelica natura e Õl ministero. Ne lÕaltra piccioletta luce ride quello avvocato deÕ tempi cristiani del cui latino Augustin si provide. Or se tu lÕocchio de la mente trani di luce in luce dietro a le mie lode, giˆ de lÕottava con sete rimani. Per vedere ogne ben dentro vi gode lÕanima santa che Õl mondo fallace fa manifesto a chi di lei ben ode. Lo corpo ondÕ ella fu cacciata giace giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da essilio venne a questa pace. Vedi oltre fiammeggiar lÕardente spiro dÕIsidoro, di Beda e di Riccardo, che a considerar fu pi che viro. Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,  Õl lume dÕuno spirto che Õn pensieri gravi a morir li parve venir tardo: essa  la luce etterna di Sigieri, che, leggendo nel Vico de li Strami, silogizz˜ invid•osi veriÈ. Indi, come orologio che ne chiami ne lÕora che la sposa di Dio surge a mattinar lo sposo perchŽ lÕami, che lÕuna parte e lÕaltra tira e urge, tin tin sonando con s“ dolce nota, che Õl ben disposto spirto dÕamor turge; cos“ vidÕ •o la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza chÕesser non p˜ nota se non colˆ dove gioir sÕinsempra. Paradiso á Canto XI O insensata cura deÕ mortali, quanto son difettivi silogismi quei che ti fanno in basso batter lÕali! Chi dietro a iura e chi ad amforismi sen giva, e chi seguendo sacerdozio, e chi regnar per forza o per sofismi, e chi rubare e chi civil negozio, chi nel diletto de la carne involto sÕaffaticava e chi si dava a lÕozio, quando, da tutte queste cose sciolto, con B‘atrice mÕera suso in cielo cotanto glor•osamente accolto. Poi che ciascuno fu tornato ne lo punto del cerchio in che avanti sÕera, fermossi, come a candellier candelo. E io sentiÕ dentro a quella lumera che pria mÕavea parlato, sorridendo incominciar, faccendosi pi mera: ÇCos“ comÕ io del suo raggio resplendo, s“, riguardando ne la luce etterna, li tuoi pensieri onde cagioni apprendo. Tu dubbi, e hai voler che si ricerna in s“ aperta e Õn s“ distesa lingua lo dicer mio, chÕal tuo sentir si sterna, ove dinanzi dissi: ÒUÕ ben sÕimpinguaÓ, e lˆ uÕ dissi: ÒNon nacque il secondoÓ; e qui  uopo che ben si distingua. La provedenza, che governa il mondo con quel consiglio nel quale ogne aspetto creato  vinto pria che vada al fondo, per˜ che andasse verÕ lo suo diletto la sposa di colui chÕad alte grida dispos˜ lei col sangue benedetto, in sŽ sicura e anche a lui pi fida, due principi ordin˜ in suo favore, che quinci e quindi le fosser per guida. LÕun fu tutto serafico in ardore; lÕaltro per sap•enza in terra fue di cherubica luce uno splendore. De lÕun dir˜, per˜ che dÕamendue si dice lÕun pregiando, qual chÕom prende, perchÕ ad un fine fur lÕopere sue. Intra Tupino e lÕacqua che discende del colle eletto dal beato Ubaldo, fertile costa dÕalto monte pende, onde Perugia sente freddo e caldo da Porta Sole; e di rietro le piange per grave giogo Nocera con Gualdo. Di questa costa, lˆ dovÕ ella frange pi sua rattezza, nacque al mondo un sole, come fa questo talvolta di Gange. Per˜ chi dÕesso loco fa parole, non dica Ascesi, chŽ direbbe corto, ma Or•ente, se proprio dir vuole. Non era ancor molto lontan da lÕorto, chÕel cominci˜ a far sentir la terra de la sua gran virtute alcun conforto; chŽ per tal donna, giovinetto, in guerra del padre corse, a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun diserra; e dinanzi a la sua spirital corte et coram patre le si fece unito; poscia di d“ in d“ lÕam˜ pi forte. Questa, privata del primo marito, millecentÕ anni e pi dispetta e scura fino a costui si stette sanza invito; nŽ valse udir che la trov˜ sicura con Amiclate, al suon de la sua voce, colui chÕa tutto Õl mondo fŽ paura; nŽ valse esser costante nŽ feroce, s“ che, dove Maria rimase giuso, ella con Cristo pianse in su la croce. Ma perchÕ io non proceda troppo chiuso, Francesco e Povertˆ per questi amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso. La lor concordia e i lor lieti sembianti, amore e maraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi; tanto che Õl venerabile Bernardo si scalz˜ prima, e dietro a tanta pace corse e, correndo, li parve esser tardo. Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, s“ la sposa piace. Indi sen va quel padre e quel maestro con la sua donna e con quella famiglia che giˆ legava lÕumile capestro. NŽ li grav˜ viltˆ di cuor le ciglia per esser fiÕ di Pietro Bernardone, nŽ per parer dispetto a maraviglia; ma regalmente sua dura intenzione ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe primo sigillo a sua relig•one. Poi che la gente poverella crebbe dietro a costui, la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe, di seconda corona redimita fu per Onorio da lÕEtterno Spiro la santa voglia dÕesto archimandrita. E poi che, per la sete del martiro, ne la presenza del Soldan superba predic˜ Cristo e li altri che Õl seguiro, e per trovare a conversione acerba troppo la gente e per non stare indarno, redissi al frutto de lÕitalica erba, nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese lÕultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno. Quando a colui chÕa tanto ben sortillo piacque di trarlo suso a la mercede chÕel merit˜ nel suo farsi pusillo, aÕ frati suoi, s“ comÕ a giuste rede, raccomand˜ la donna sua pi cara, e comand˜ che lÕamassero a fede; e del suo grembo lÕanima preclara mover si volle, tornando al suo regno, e al suo corpo non volle altra bara. Pensa oramai qual fu colui che degno collega fu a mantener la barca di Pietro in alto mar per dritto segno; e questo fu il nostro patr•arca; per che qual segue lui, comÕ el comanda, discerner puoi che buone merce carca. Ma Õl suo pecuglio di nova vivanda  fatto ghiotto, s“ chÕesser non puote che per diversi salti non si spanda; e quanto le sue pecore remote e vagabunde pi da esso vanno, pi tornano a lÕovil di latte v˜te. Ben son di quelle che temono Õl danno e stringonsi al pastor; ma son s“ poche, che le cappe fornisce poco panno. Or, se le mie parole non son fioche, se la tua aud•enza  stata attenta, se ci˜ chՏ detto a la mente revoche, in parte fia la tua voglia contenta, perchŽ vedrai la pianta onde si scheggia, e vedraÕ il corrgger che argomenta ÒUÕ ben sÕimpingua, se non si vaneggiaÓÈ. Paradiso á Canto XII S“ tosto come lÕultima parola la benedetta fiamma per dir tolse, a rotar cominci˜ la santa mola; e nel suo giro tutta non si volse prima chÕunÕaltra di cerchio la chiuse, e moto a moto e canto a canto colse; canto che tanto vince nostre muse, nostre serene in quelle dolci tube, quanto primo splendor quel chÕeÕ refuse. Come si volgon per tenera nube due archi paralelli e concolori, quando Iunone a sua ancella iube, nascendo di quel dÕentro quel di fori, a guisa del parlar di quella vaga chÕamor consunse come sol vapori, e fanno qui la gente esser presaga, per lo patto che Dio con No puose, del mondo che giˆ mai pi non sÕallaga: cos“ di quelle sempiterne rose volgiensi circa noi le due ghirlande, e s“ lÕestrema a lÕintima rispuose. Poi che Õl tripudio e lÕaltra festa grande, s“ del cantare e s“ del fiammeggiarsi luce con luce gaud•ose e blande, insieme a punto e a voler quetarsi, pur come li occhi chÕal piacer che i move conviene insieme chiudere e levarsi; del cor de lÕuna de le luci nove si mosse voce, che lÕago a la stella parer mi fece in volgermi al suo dove; e cominci˜: ÇLÕamor che mi fa bella mi tragge a ragionar de lÕaltro duca per cui del mio s“ ben ci si favella. Degno  che, dovÕ  lÕun, lÕaltro sÕinduca: s“ che, comÕ elli ad una militaro, cos“ la gloria loro insieme luca. LÕessercito di Cristo, che s“ caro cost˜ a r•armar, dietro a la Õnsegna si movea tardo, sospeccioso e raro, quando lo Õmperador che sempre regna provide a la milizia, chÕera in forse, per sola grazia, non per esser degna; e, come  detto, a sua sposa soccorse con due campioni, al cui fare, al cui dire lo popol disv•ato si raccorse. In quella parte ove surge ad aprire Zefiro dolce le novelle fronde di che si vede Europa rivestire, non molto lungi al percuoter de lÕonde dietro a le quali, per la lunga foga, lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde, siede la fortunata Calaroga sotto la protezion del grande scudo in che soggiace il leone e soggioga: dentro vi nacque lÕamoroso drudo de la fede cristiana, il santo atleta benigno aÕ suoi e aÕ nemici crudo; e come fu creata, fu repleta s“ la sua mente di viva vertute che, ne la madre, lei fece profeta. Poi che le sponsalizie fuor compiute al sacro fonte intra lui e la Fede, uÕ si dotar di mutŸa salute, la donna che per lui lÕassenso diede, vide nel sonno il mirabile frutto chÕuscir dovea di lui e de le rede; e perchŽ fosse qual era in costrutto, quinci si mosse spirito a nomarlo del possessivo di cui era tutto. Domenico fu detto; e io ne parlo s“ come de lÕagricola che Cristo elesse a lÕorto suo per aiutarlo. Ben parve messo e famigliar di Cristo: che Õl primo amor che Õn lui fu manifesto, fu al primo consiglio che di Cristo. Spesse f•ate fu tacito e desto trovato in terra da la sua nutrice, come dicesse: ÔIo son venuto a questoÕ. Oh padre suo veramente Felice! oh madre sua veramente Giovanna, se, interpretata, val come si dice! Non per lo mondo, per cui mo sÕaffanna di retro ad Ost•ense e a Taddeo, ma per amor de la verace manna in picciol tempo gran dottor si feo; tal che si mise a circŸir la vigna che tosto imbianca, se Õl vignaio  reo. E a la sedia che fu giˆ benigna pi aÕ poveri giusti, non per lei, ma per colui che siede, che traligna, non dispensare o due o tre per sei, non la fortuna di prima vacante, non decimas, quae sunt pauperum Dei, addimand˜, ma contro al mondo errante licenza di combatter per lo seme del qual ti fascian ventiquattro piante. Poi, con dottrina e con volere insieme, con lÕofficio appostolico si mosse quasi torrente chÕalta vena preme; e ne li sterpi eretici percosse lÕimpeto suo, pi vivamente quivi dove le resistenze eran pi grosse. Di lui si fecer poi diversi rivi onde lÕorto catolico si riga, s“ che i suoi arbuscelli stan pi vivi. Se tal fu lÕuna rota de la biga in che la Santa Chiesa si difese e vinse in campo la sua civil briga, ben ti dovrebbe assai esser palese lÕeccellenza de lÕaltra, di cui Tomma dinanzi al mio venir fu s“ cortese. Ma lÕorbita che fŽ la parte somma di sua circunferenza,  derelitta, s“ chՏ la muffa dovÕ era la gromma. La sua famiglia, che si mosse dritta coi piedi a le sue orme,  tanto volta, che quel dinanzi a quel di retro gitta; e tosto si vedrˆ de la ricolta de la mala coltura, quando il loglio si lagnerˆ che lÕarca li sia tolta. Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio nostro volume, ancor troveria carta uÕ leggerebbe ÒIÕ mi son quel chÕiÕ soglioÓ; ma non fia da Casal nŽ dÕAcquasparta, lˆ onde vegnon tali a la scrittura, chÕuno la fugge e altro la coarta. Io son la vita di Bonaventura da Bagnoregio, che neÕ grandi offici sempre pospuosi la sinistra cura. Illuminato e Augustin son quici, che fuor deÕ primi scalzi poverelli che nel capestro a Dio si fero amici. Ugo da San Vittore  qui con elli, e Pietro Mangiadore e Pietro Spano, lo qual gi luce in dodici libelli; Natˆn profeta e Õl metropolitano Crisostomo e Anselmo e quel Donato chÕa la primÕ arte degn˜ porre mano. Rabano  qui, e lucemi dallato il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato. Ad inveggiar cotanto paladino mi mosse lÕinfiammata cortesia di fra Tommaso e Õl discreto latino; e mosse meco questa compagniaÈ. Paradiso á Canto XIII Imagini, chi bene intender cupe quel chÕiÕ or vidiÑe ritegna lÕimage, mentre chÕio dico, come ferma rupeÑ, quindici stelle che Õn diverse plage lo ciel avvivan di tanto sereno che soperchia de lÕaere ogne compage; imagini quel carro a cuÕ il seno basta del nostro cielo e notte e giorno, s“ chÕal volger del temo non vien meno; imagini la bocca di quel corno che si comincia in punta de lo stelo a cui la prima rota va dintorno, aver fatto di sŽ due segni in cielo, qual fece la figliuola di Minoi allora che sent“ di morte il gelo; e lÕun ne lÕaltro aver li raggi suoi, e amendue girarsi per maniera che lÕuno andasse al primo e lÕaltro al poi; e avrˆ quasi lÕombra de la vera costellazione e de la doppia danza che circulava il punto dovÕ io era: poi chՏ tanto di lˆ da nostra usanza, quanto di lˆ dal mover de la Chiana si move il ciel che tutti li altri avanza. L“ si cant˜ non Bacco, non Peana, ma tre persone in divina natura, e in una persona essa e lÕumana. CompiŽ Õl cantare e Õl volger sua misura; e attesersi a noi quei santi lumi, felicitando sŽ di cura in cura. Ruppe il silenzio neÕ concordi numi poscia la luce in che mirabil vita del poverel di Dio narrata fumi, e disse: ÇQuando lÕuna paglia  trita, quando la sua semenza  giˆ riposta, a batter lÕaltra dolce amor mÕinvita. Tu credi che nel petto onde la costa si trasse per formar la bella guancia il cui palato a tutto Õl mondo costa, e in quel che, forato da la lancia, e prima e poscia tanto sodisfece, che dÕogne colpa vince la bilancia, quantunque a la natura umana lece aver di lume, tutto fosse infuso da quel valor che lÕuno e lÕaltro fece; e per˜ miri a ci˜ chÕio dissi suso, quando narrai che non ebbe Õl secondo lo ben che ne la quinta luce  chiuso. Or apri li occhi a quel chÕio ti rispondo, e vedrŠi il tuo credere e Õl mio dire nel vero farsi come centro in tondo. Ci˜ che non more e ci˜ che pu˜ morire non  se non splendor di quella idea che partorisce, amando, il nostro Sire; chŽ quella viva luce che s“ mea dal suo lucente, che non si disuna da lui nŽ da lÕamor chÕa lor sÕintrea, per sua bontate il suo raggiare aduna, quasi specchiato, in nove sussistenze, etternalmente rimanendosi una. Quindi discende a lÕultime potenze gi dÕatto in atto, tanto divenendo, che pi non fa che brevi contingenze; e queste contingenze essere intendo le cose generate, che produce con seme e sanza seme il ciel movendo. La cera di costoro e chi la duce non sta dÕun modo; e per˜ sotto Õl segno id‘ale poi pi e men traluce. OndÕ elli avvien chÕun medesimo legno, secondo specie, meglio e peggio frutta; e voi nascete con diverso ingegno. Se fosse a punto la cera dedutta e fosse il cielo in sua virt supprema, la luce del suggel parrebbe tutta; ma la natura la dˆ sempre scema, similemente operando a lÕartista chÕa lÕabito de lÕarte ha man che trema. Per˜ se Õl caldo amor la chiara vista de la prima virt dispone e segna, tutta la perfezion quivi sÕacquista. Cos“ fu fatta giˆ la terra degna di tutta lÕanimal perfez•one; cos“ fu fatta la Vergine pregna; s“ chÕio commendo tua oppin•one, che lÕumana natura mai non fue nŽ fia qual fu in quelle due persone. Or sÕiÕ non procedesse avanti pie, ÔDunque, come costui fu sanza pare?Õ comincerebber le parole tue. Ma perchŽ paia ben ci˜ che non pare, pensa chi era, e la cagion che Õl mosse, quando fu detto ÒChiediÓ, a dimandare. Non ho parlato s“, che tu non posse ben veder chÕel fu re, che chiese senno acci˜ che re suffic•ente fosse; non per sapere il numero in che enno li motor di qua s, o se necesse con contingente mai necesse fenno; non si est dare primum motum esse, o se del mezzo cerchio far si puote tr•angol s“ chÕun retto non avesse. Onde, se ci˜ chÕio dissi e questo note, regal prudenza  quel vedere impari in che lo stral di mia intenzion percuote; e se al ÒsurseÓ drizzi li occhi chiari, vedrai aver solamente respetto ai regi, che son molti, e Õ buon son rari. Con questa distinzion prendi Õl mio detto; e cos“ puote star con quel che credi del primo padre e del nostro Diletto. E questo ti sia sempre piombo aÕ piedi, per farti mover lento comÕ uom lasso e al s“ e al no che tu non vedi: chŽ quelli  tra li stolti bene a basso, che sanza distinzione afferma e nega ne lÕun cos“ come ne lÕaltro passo; perchÕ elli Õncontra che pi volte piega lÕoppin•on corrente in falsa parte, e poi lÕaffetto lÕintelletto lega. Vie pi che Õndarno da riva si parte, perchŽ non torna tal qual eÕ si move, chi pesca per lo vero e non ha lÕarte. E di ci˜ sono al mondo aperte prove Parmenide, Melisso e Brisso e molti, li quali andaro e non sap‘an dove; s“ fŽ Sabellio e Arrio e quelli stolti che furon come spade a le Scritture in render torti li diritti volti. Non sien le genti, ancor, troppo sicure a giudicar, s“ come quei che stima le biade in campo pria che sien mature; chÕiÕ ho veduto tutto Õl verno prima lo prun mostrarsi rigido e feroce, poscia portar la rosa in su la cima; e legno vidi giˆ dritto e veloce correr lo mar per tutto suo cammino, perire al fine a lÕintrar de la foce. Non creda donna Berta e ser Martino, per vedere un furare, altro offerere, vederli dentro al consiglio divino; chŽ quel pu˜ surgere, e quel pu˜ cadereÈ. Paradiso á Canto XIV Dal centro al cerchio, e s“ dal cerchio al centro movesi lÕacqua in un ritondo vaso, secondo chՏ percosso fuori o dentro: ne la mia mente fŽ sbito caso questo chÕio dico, s“ come si tacque la glor•osa vita di Tommaso, per la similitudine che nacque del suo parlare e di quel di Beatrice, a cui s“ cominciar, dopo lui, piacque: ÇA costui fa mestieri, e nol vi dice nŽ con la voce nŽ pensando ancora, dÕun altro vero andare a la radice. Diteli se la luce onde sÕinfiora vostra sustanza, rimarrˆ con voi etternalmente s“ comÕ ellÕ  ora; e se rimane, dite come, poi che sarete visibili rifatti, esser porˆ chÕal veder non vi n˜iÈ. Come, da pi letizia pinti e tratti, a la f•ata quei che vanno a rota levan la voce e rallegrano li atti, cos“, a lÕorazion pronta e divota, li santi cerchi mostrar nova gioia nel torneare e ne la mira nota. Qual si lamenta perchŽ qui si moia per viver colˆ s, non vide quive lo refrigerio de lÕetterna ploia. QuellÕ uno e due e tre che sempre vive e regna sempre in tre e Õn due e Õn uno, non circunscritto, e tutto circunscrive, tre volte era cantato da ciascuno di quelli spirti con tal melodia, chÕad ogne merto saria giusto muno. E io udiÕ ne la luce pi dia del minor cerchio una voce modesta, forse qual fu da lÕangelo a Maria, risponder: ÇQuanto fia lunga la festa di paradiso, tanto il nostro amore si raggerˆ dintorno cotal vesta. La sua chiarezza sŽguita lÕardore; lÕardor la vis•one, e quella  tanta, quantÕ ha di grazia sovra suo valore. Come la carne glor•osa e santa fia rivestita, la nostra persona pi grata fia per esser tutta quanta; per che sÕaccrescerˆ ci˜ che ne dona di gratŸito lume il sommo bene, lume chÕa lui veder ne condiziona; onde la vis•on crescer convene, crescer lÕardor che di quella sÕaccende, crescer lo raggio che da esso vene. Ma s“ come carbon che fiamma rende, e per vivo candor quella soverchia, s“ che la sua parvenza si difende; cos“ questo folg—r che giˆ ne cerchia fia vinto in apparenza da la carne che tutto d“ la terra ricoperchia; nŽ potrˆ tanta luce affaticarne: chŽ li organi del corpo saran forti a tutto ci˜ che potrˆ dilettarneÈ. Tanto mi parver sbiti e accorti e lÕuno e lÕaltro coro a dicer ÇAmme!È, che ben mostrar disio dÕi corpi morti: forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari anzi che fosser sempiterne fiamme. Ed ecco intorno, di chiarezza pari, nascere un lustro sopra quel che vÕera, per guisa dÕorizzonte che rischiari. E s“ come al salir di prima sera comincian per lo ciel nove parvenze, s“ che la vista pare e non par vera, parvemi l“ novelle sussistenze cominciare a vedere, e fare un giro di fuor da lÕaltre due circunferenze. Oh vero sfavillar del Santo Spiro! come si fece sbito e candente a li occhi miei che, vinti, nol soffriro! Ma B‘atrice s“ bella e ridente mi si mostr˜, che tra quelle vedute si vuol lasciar che non seguir la mente. Quindi ripreser li occhi miei virtute a rilevarsi; e vidimi translato sol con mia donna in pi alta salute. Ben mÕaccorsÕ io chÕio era pi levato, per lÕaffocato riso de la stella, che mi parea pi roggio che lÕusato. Con tutto Õl core e con quella favella chՏ una in tutti, a Dio feci olocausto, qual conveniesi a la grazia novella. E non erÕ anco del mio petto essausto lÕardor del sacrificio, chÕio conobbi esso litare stato accetto e fausto; chŽ con tanto lucore e tanto robbi mÕapparvero splendor dentro a due raggi, chÕio dissi: ÇO El•˜s che s“ li addobbi!È. Come distinta da minori e maggi lumi biancheggia tra Õ poli del mondo Galassia s“, che fa dubbiar ben saggi; s“ costellati facean nel profondo Marte quei raggi il venerabil segno che fan giunture di quadranti in tondo. Qui vince la memoria mia lo Õngegno; chŽ quella croce lampeggiava Cristo, s“ chÕio non so trovare essempro degno; ma chi prende sua croce e segue Cristo, ancor mi scuserˆ di quel chÕio lasso, vedendo in quellÕ albor balenar Cristo. Di corno in corno e tra la cima e Õl basso si movien lumi, scintillando forte nel congiugnersi insieme e nel trapasso: cos“ si veggion qui diritte e torte, veloci e tarde, rinovando vista, le minuzie dÕi corpi, lunghe e corte, moversi per lo raggio onde si lista talvolta lÕombra che, per sua difesa, la gente con ingegno e arte acquista. E come giga e arpa, in tempra tesa di molte corde, fa dolce tintinno a tal da cui la nota non  intesa, cos“ daÕ lumi che l“ mÕapparinno sÕaccogliea per la croce una melode che mi rapiva, sanza intender lÕinno. Ben mÕaccorsÕ io chÕelli era dÕalte lode, per˜ chÕa me ven“a ÇResurgiÈ e ÇVinciÈ come a colui che non intende e ode. ìo mÕinnamorava tanto quinci, che Õnfino a l“ non fu alcuna cosa che mi legasse con s“ dolci vinci. Forse la mia parola par troppo osa, posponendo il piacer de li occhi belli, neÕ quai mirando mio disio ha posa; ma chi sÕavvede che i vivi suggelli dÕogne bellezza pi fanno pi suso, e chÕio non mÕera l“ rivolto a quelli, escusar puommi di quel chÕio mÕaccuso per escusarmi, e vedermi dir vero: chŽ Õl piacer santo non  qui dischiuso, perchŽ si fa, montando, pi sincero. Paradiso á Canto XV Benigna volontade in che si liqua sempre lÕamor che drittamente spira, come cupiditˆ fa ne la iniqua, silenzio puose a quella dolce lira, e fece qu•etar le sante corde che la destra del cielo allenta e tira. Come saranno aÕ giusti preghi sorde quelle sustanze che, per darmi voglia chÕio le pregassi, a tacer fur concorde? Bene  che sanza termine si doglia chi, per amor di cosa che non duri etternalmente, quello amor si spoglia. Quale per li seren tranquilli e puri discorre ad ora ad or sbito foco, movendo li occhi che stavan sicuri, e pare stella che tramuti loco, se non che da la parte ondÕ eÕ sÕaccende nulla sen perde, ed esso dura poco: tale dal corno che Õn destro si stende a pi di quella croce corse un astro de la costellazion che l“ resplende; nŽ si part“ la gemma dal suo nastro, ma per la lista rad•al trascorse, che parve foco dietro ad alabastro. S“ p•a lÕombra dÕAnchise si porse, se fede merta nostra maggior musa, quando in Eliso del figlio sÕaccorse. ÇO sanguis meus, o superinfusa grat•a De•, sicut tibi cui bis unquam celi ianŸa reclusa?È. Cos“ quel lume: ondÕ io mÕattesi a lui; poscia rivolsi a la mia donna il viso, e quinci e quindi stupefatto fui; chŽ dentro a li occhi suoi ardeva un riso tal, chÕio pensai coÕ miei toccar lo fondo de la mia gloria e del mio paradiso. Indi, a udire e a veder giocondo, giunse lo spirto al suo principio cose, chÕio non lo Õntesi, s“ parl˜ profondo; nŽ per elez•on mi si nascose, ma per necessitˆ, chŽ Õl suo concetto al segno dÕi mortal si soprapuose. E quando lÕarco de lÕardente affetto fu s“ sfogato, che Õl parlar discese inverÕ lo segno del nostro intelletto, la prima cosa che per me sÕintese, ÇBenedetto sia tuÈ, fu, Çtrino e uno, che nel mio seme seÕ tanto cortese!È. E segu“: ÇGrato e lontano digiuno, tratto leggendo del magno volume duÕ non si muta mai bianco nŽ bruno, solvuto hai, figlio, dentro a questo lume in chÕio ti parlo, merc di colei chÕa lÕalto volo ti vest“ le piume. Tu credi che a me tuo pensier mei da quel chՏ primo, cos“ come raia da lÕun, se si conosce, il cinque e Õl sei; e per˜ chÕio mi sia e perchÕ io paia pi gaud•oso a te, non mi domandi, che alcun altro in questa turba gaia. Tu credi Õl vero; chŽ i minori e Õ grandi di questa vita miran ne lo speglio in che, prima che pensi, il pensier pandi; ma perchŽ Õl sacro amore in che io veglio con perpetŸa vista e che mÕasseta di dolce dis•ar, sÕadempia meglio, la voce tua sicura, balda e lieta suoni la volontˆ, suoni Õl disio, a che la mia risposta  giˆ decreta!È. Io mi volsi a Beatrice, e quella udio pria chÕio parlassi, e arrisemi un cenno che fece crescer lÕali al voler mio. Poi cominciai cos“: ÇLÕaffetto e Õl senno, come la prima equalitˆ vÕapparse, dÕun peso per ciascun di voi si fenno, per˜ che Õl sol che vÕallum˜ e arse, col caldo e con la luce  s“ iguali, che tutte simiglianze sono scarse. Ma voglia e argomento neÕ mortali, per la cagion chÕa voi  manifesta, diversamente son pennuti in ali; ondÕ io, che son mortal, mi sento in questa disagguaglianza, e per˜ non ringrazio se non col core a la paterna festa. Ben supplico io a te, vivo topazio che questa gioia prez•osa ingemmi, perchŽ mi facci del tuo nome sazioÈ. ÇO fronda mia in che io compiacemmi pur aspettando, io fui la tua radiceÈ: cotal principio, rispondendo, femmi. Poscia mi disse: ÇQuel da cui si dice tua cognazione e che centÕ anni e pie girato ha Õl monte in la prima cornice, mio figlio fu e tuo bisavol fue: ben si convien che la lunga fatica tu li raccorci con lÕopere tue. Fiorenza dentro da la cerchia antica, ondÕ ella toglie ancora e terza e nona, si stava in pace, sobria e pudica. Non avea catenella, non corona, non gonne contigiate, non cintura che fosse a veder pi che la persona. Non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre, che Õl tempo e la dote non fuggien quinci e quindi la misura. Non avea case di famiglia v˜te; non vÕera giunto ancor Sardanapalo a mostrar ci˜ che Õn camera si puote. Non era vinto ancora Montemalo dal vostro Uccellatoio, che, comÕ  vinto nel montar s, cos“ sarˆ nel calo. Bellincion Berti vidÕ io andar cinto di cuoio e dÕosso, e venir da lo specchio la donna sua sanza Õl viso dipinto; e vidi quel dÕi Nerli e quel del Vecchio esser contenti a la pelle scoperta, e le sue donne al fuso e al pennecchio. Oh fortunate! ciascuna era certa de la sua sepultura, e ancor nulla era per Francia nel letto diserta. LÕuna vegghiava a studio de la culla, e, consolando, usava lÕid•oma che prima i padri e le madri trastulla; lÕaltra, traendo a la rocca la chioma, favoleggiava con la sua famiglia dÕi Troiani, di Fiesole e di Roma. Saria tenuta allor tal maraviglia una Cianghella, un Lapo Salterello, qual or saria Cincinnato e Corniglia. A cos“ riposato, a cos“ bello viver di cittadini, a cos“ fida cittadinanza, a cos“ dolce ostello, Maria mi di, chiamata in alte grida; e ne lÕantico vostro Batisteo insieme fui cristiano e Cacciaguida. Moronto fu mio frate ed Eliseo; mia donna venne a me di val di Pado, e quindi il sopranome tuo si feo. Poi seguitai lo Õmperador Currado; ed el mi cinse de la sua milizia, tanto per bene ovrar li venni in grado. Dietro li andai incontro a la nequizia di quella legge il cui popolo usurpa, per colpa dÕi pastor, vostra giustizia. Quivi fuÕ io da quella gente turpa disviluppato dal mondo fallace, lo cui amor moltÕ anime deturpa; e venni dal martiro a questa paceÈ. Paradiso á Canto XVI O poca nostra nobiltˆ di sangue, se glor•ar di te la gente fai qua gi dove lÕaffetto nostro langue, mirabil cosa non mi sarˆ mai: chŽ lˆ dove appetito non si torce, dico nel cielo, io me ne gloriai. Ben seÕ tu manto che tosto raccorce: s“ che, se non sÕappon di d“ in die, lo tempo va dintorno con le force. Dal ÔvoiÕ che prima a Roma sÕofferie, in che la sua famiglia men persevra, ricominciaron le parole mie; onde Beatrice, chÕera un poco scevra, ridendo, parve quella che tossio al primo fallo scritto di Ginevra. Io cominciai: ÇVoi siete il padre mio; voi mi date a parlar tutta baldezza; voi mi levate s“, chÕiÕ son pi chÕio. Per tanti rivi sÕempie dÕallegrezza la mente mia, che di sŽ fa letizia perchŽ pu˜ sostener che non si spezza. Ditemi dunque, cara mia primizia, quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni che si segnaro in vostra pŸerizia; ditemi de lÕovil di San Giovanni quanto era allora, e chi eran le genti tra esso degne di pi alti scanniÈ. Come sÕavviva a lo spirar dÕi venti carbone in fiamma, cos“ vidÕ io quella luce risplendere aÕ miei blandimenti; e come a li occhi miei si fŽ pi bella, cos“ con voce pi dolce e soave, ma non con questa moderna favella, dissemi: ÇDa quel d“ che fu detto ÔAveÕ al parto in che mia madre, chՏ or santa, sÕallev•˜ di me ondÕ era grave, al suo Leon cinquecento cinquanta e trenta fiate venne questo foco a rinfiammarsi sotto la sua pianta. Li antichi miei e io nacqui nel loco dove si truova pria lÕultimo sesto da quei che corre il vostro annŸal gioco. Basti dÕi miei maggiori udirne questo: chi ei si fosser e onde venner quivi, pi  tacer che ragionare onesto. Tutti color chÕa quel tempo eran ivi da poter arme tra Marte e Õl Batista, eran il quinto di quei chÕor son vivi. Ma la cittadinanza, chՏ or mista di Campi, di Certaldo e di Fegghine, pura vediesi ne lÕultimo artista. Oh quanto fora meglio esser vicine quelle genti chÕio dico, e al Galluzzo e a Trespiano aver vostro confine, che averle dentro e sostener lo puzzo del villan dÕAguglion, di quel da Signa, che giˆ per barattare ha lÕocchio aguzzo! Se la gente chÕal mondo pi traligna non fosse stata a Cesare noverca, ma come madre a suo figlio benigna, tal fatto  fiorentino e cambia e merca, che si sarebbe v˜lto a Simifonti, lˆ dove andava lÕavolo a la cerca; sariesi Montemurlo ancor deÕ Conti; sarieno i Cerchi nel piovier dÕAcone, e forse in Valdigrieve i Buondelmonti. Sempre la confusion de le persone principio fu del mal de la cittade, come del vostro il cibo che sÕappone; e cieco toro pi avaccio cade che cieco agnello; e molte volte taglia pi e meglio una che le cinque spade. Se tu riguardi Luni e Orbisaglia come sono ite, e come se ne vanno di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, udir come le schiatte si disfanno non ti parrˆ nova cosa nŽ forte, poscia che le cittadi termine hanno. Le vostre cose tutte hanno lor morte, s“ come voi; ma celasi in alcuna che dura molto, e le vite son corte. E come Õl volger del ciel de la luna cuopre e discuopre i liti sanza posa, cos“ fa di Fiorenza la Fortuna: per che non dee parer mirabil cosa ci˜ chÕio dir˜ de li alti Fiorentini onde  la fama nel tempo nascosa. Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, giˆ nel calare, illustri cittadini; e vidi cos“ grandi come antichi, con quel de la Sannella, quel de lÕArca, e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi. Sovra la porta chÕal presente  carca di nova fellonia di tanto peso che tosto fia iattura de la barca, erano i Ravignani, ondÕ  disceso il conte Guido e qualunque del nome de lÕalto Bellincione ha poscia preso. Quel de la Pressa sapeva giˆ come regger si vuole, e avea Galigaio dorata in casa sua giˆ lÕelsa e Õl pome. GrandÕ era giˆ la colonna del Vaio, Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci e Galli e quei chÕarrossan per lo staio. Lo ceppo di che nacquero i Calfucci era giˆ grande, e giˆ eran tratti a le curule Sizii e Arrigucci. Oh quali io vidi quei che son disfatti per lor superbia! e le palle de lÕoro fiorian Fiorenza in tuttÕ i suoi gran fatti. Cos“ facieno i padri di coloro che, sempre che la vostra chiesa vaca, si fanno grassi stando a consistoro. LÕoltracotata schiatta che sÕindraca dietro a chi fugge, e a chi mostra Õl dente o ver la borsa, comÕ agnel si placa, giˆ ven“a s, ma di picciola gente; s“ che non piacque ad Ubertin Donato che po• il suocero il fŽ lor parente. Giˆ era Õl Caponsacco nel mercato disceso gi da Fiesole, e giˆ era buon cittadino Giuda e Infangato. Io dir˜ cosa incredibile e vera: nel picciol cerchio sÕentrava per porta che si nomava da quei de la Pera. Ciascun che de la bella insegna porta del gran barone il cui nome e Õl cui pregio la festa di Tommaso riconforta, da esso ebbe milizia e privilegio; avvegna che con popol si rauni oggi colui che la fascia col fregio. Giˆ eran Gualterotti e Importuni; e ancor saria Borgo pi qu•eto, se di novi vicin fosser digiuni. La casa di che nacque il vostro fleto, per lo giusto disdegno che vÕha morti e puose fine al vostro viver lieto, era onorata, essa e suoi consorti: o Buondelmonte, quanto mal fuggisti le nozze sŸe per li altrui conforti! Molti sarebber lieti, che son tristi, se Dio tÕavesse conceduto ad Ema la prima volta chÕa cittˆ venisti. Ma conveniesi a quella pietra scema che guarda Õl ponte, che Fiorenza fesse vittima ne la sua pace postrema. Con queste genti, e con altre con esse, vidÕ io Fiorenza in s“ fatto riposo, che non avea cagione onde piangesse. Con queste genti vidÕio glor•oso e giusto il popol suo, tanto che Õl giglio non era ad asta mai posto a ritroso, nŽ per divis•on fatto vermiglioÈ. Paradiso á Canto XVII Qual venne a Climen, per accertarsi di ci˜ chÕav‘a incontro a sŽ udito, quei chÕancor fa li padri ai figli scarsi; tal era io, e tal era sentito e da Beatrice e da la santa lampa che pria per me avea mutato sito. Per che mia donna ÇManda fuor la vampa del tuo disioÈ, mi disse, Çs“ chÕella esca segnata bene de la interna stampa: non perchŽ nostra conoscenza cresca per tuo parlare, ma perchŽ tÕausi a dir la sete, s“ che lÕuom ti mescaÈ. ÇO cara piota mia che s“ tÕinsusi, che, come veggion le terrene menti non capere in tr•angol due ottusi, cos“ vedi le cose contingenti anzi che sieno in sŽ, mirando il punto a cui tutti li tempi son presenti; mentre chÕio era a Virgilio congiunto su per lo monte che lÕanime cura e discendendo nel mondo defunto, dette mi fuor di mia vita futura parole gravi, avvegna chÕio mi senta ben tetragono ai colpi di ventura; per che la voglia mia saria contenta dÕintender qual fortuna mi sÕappressa: chŽ saetta previsa vien pi lentaÈ. Cos“ dissÕ io a quella luce stessa che pria mÕavea parlato; e come volle Beatrice, fu la mia voglia confessa. NŽ per ambage, in che la gente folle giˆ sÕinviscava pria che fosse anciso lÕAgnel di Dio che le peccata tolle, ma per chiare parole e con preciso latin rispuose quello amor paterno, chiuso e parvente del suo proprio riso: ÇLa contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta  dipinta nel cospetto etterno; necessitˆ per˜ quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente gi discende. Da indi, s“ come viene ad orecchia dolce armonia da organo, mi viene a vista il tempo che ti sÕapparecchia. Qual si partio Ipolito dÕAtene per la spietata e perfida noverca, tal di Fiorenza partir ti convene. Questo si vuole e questo giˆ si cerca, e tosto verrˆ fatto a chi ci˜ pensa lˆ dove Cristo tutto d“ si merca. La colpa seguirˆ la parte offensa in grido, come suol; ma la vendetta fia testimonio al ver che la dispensa. Tu lascerai ogne cosa diletta pi caramente; e questo  quello strale che lÕarco de lo essilio pria saetta. Tu proverai s“ come sa di sale lo pane altrui, e come  duro calle lo scendere e Õl salir per lÕaltrui scale. E quel che pi ti graverˆ le spalle, sarˆ la compagnia malvagia e scempia con la qual tu cadrai in questa valle; che tutta ingrata, tutta matta ed empia si farˆ contrÕ a te; ma, poco appresso, ella, non tu, nÕavrˆ rossa la tempia. Di sua bestialitate il suo processo farˆ la prova; s“ chÕa te fia bello averti fatta parte per te stesso. Lo primo tuo refugio e Õl primo ostello sarˆ la cortesia del gran Lombardo che Õn su la scala porta il santo uccello; chÕin te avrˆ s“ benigno riguardo, che del fare e del chieder, tra voi due, fia primo quel che tra li altri  pi tardo. Con lui vedrai colui che Õmpresso fue, nascendo, s“ da questa stella forte, che notabili fier lÕopere sue. Non se ne son le genti ancora accorte per la novella etˆ, chŽ pur nove anni son queste rote intorno di lui torte; ma pria che Õl Guasco lÕalto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar dÕargento nŽ dÕaffanni. Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, s“ che Õ suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. A lui tÕaspetta e aÕ suoi benefici; per lui fia trasmutata molta gente, cambiando condizion ricchi e mendici; e porteraÕne scritto ne la mente di lui, e nol diraiÈ; e disse cose incredibili a quei che fier presente. Poi giunse: ÇFiglio, queste son le chiose di quel che ti fu detto; ecco le Õnsidie che dietro a pochi giri son nascose. Non voÕ per˜ chÕaÕ tuoi vicini invidie, poscia che sÕinfutura la tua vita vie pi lˆ che Õl punir di lor perfidieÈ. Poi che, tacendo, si mostr˜ spedita lÕanima santa di metter la trama in quella tela chÕio le porsi ordita, io cominciai, come colui che brama, dubitando, consiglio da persona che vede e vuol dirittamente e ama: ÇBen veggio, padre mio, s“ come sprona lo tempo verso me, per colpo darmi tal, chՏ pi grave a chi pi sÕabbandona; per che di provedenza  buon chÕio mÕarmi, s“ che, se loco mՏ tolto pi caro, io non perdessi li altri per miei carmi. Gi per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume li occhi de la mia donna mi levaro, e poscia per lo ciel, di lume in lume, ho io appreso quel che sÕio ridico, a molti fia sapor di forte agrume; e sÕio al vero son timido amico, temo di perder viver tra coloro che questo tempo chiameranno anticoÈ. La luce in che rideva il mio tesoro chÕio trovai l“, si fŽ prima corusca, quale a raggio di sole specchio dÕoro; indi rispuose: ÇCosc•enza fusca o de la propria o de lÕaltrui vergogna pur sentirˆ la tua parola brusca. Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua vis•on fa manifesta; e lascia pur grattar dovÕ  la rogna. ChŽ se la voce tua sarˆ molesta nel primo gusto, vital nodrimento lascerˆ poi, quando sarˆ digesta. Questo tuo grido farˆ come vento, che le pi alte cime pi percuote; e ci˜ non fa dÕonor poco argomento. Per˜ ti son mostrate in queste rote, nel monte e ne la valle dolorosa pur lÕanime che son di fama note, che lÕanimo di quel chÕode, non posa nŽ ferma fede per essempro chÕaia la sua radice incognita e ascosa, nŽ per altro argomento che non paiaÈ. Paradiso á Canto XVIII Giˆ si godeva solo del suo verbo quello specchio beato, e io gustava lo mio, temprando col dolce lÕacerbo; e quella donna chÕa Dio mi menava disse: ÇMuta pensier; pensa chÕiÕ sono presso a colui chÕogne torto disgravaÈ. Io mi rivolsi a lÕamoroso suono del mio conforto; e qual io allor vidi ne li occhi santi amor, qui lÕabbandono: non perchÕ io pur del mio parlar diffidi, ma per la mente che non pu˜ redire sovra sŽ tanto, sÕaltri non la guidi. Tanto possÕ io di quel punto ridire, che, rimirando lei, lo mio affetto libero fu da ogne altro disire, fin che Õl piacere etterno, che diretto raggiava in B‘atrice, dal bel viso mi contentava col secondo aspetto. Vincendo me col lume dÕun sorriso, ella mi disse: ÇVolgiti e ascolta; chŽ non pur neÕ miei occhi  paradisoÈ. Come si vede qui alcuna volta lÕaffetto ne la vista, sÕelli  tanto, che da lui sia tutta lÕanima tolta, cos“ nel fiammeggiar del folg—r santo, a chÕio mi volsi, conobbi la voglia in lui di ragionarmi ancora alquanto. El cominci˜: ÇIn questa quinta soglia de lÕalbero che vive de la cima e frutta sempre e mai non perde foglia, spiriti son beati, che gi, prima che venissero al ciel, fuor di gran voce, s“ chÕogne musa ne sarebbe opima. Per˜ mira neÕ corni de la croce: quello chÕio nomer˜, l“ farˆ lÕatto che fa in nube il suo foco veloceÈ. Io vidi per la croce un lume tratto dal nomar Iosu, comÕ el si feo; nŽ mi fu noto il dir prima che Õl fatto. E al nome de lÕalto Macabeo vidi moversi un altro roteando, e letizia era ferza del paleo. Cos“ per Carlo Magno e per Orlando due ne segu“ lo mio attento sguardo, comÕ occhio segue suo falcon volando. Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo e Õl duca Gottifredi la mia vista per quella croce, e Ruberto Guiscardo. Indi, tra lÕaltre luci mota e mista, mostrommi lÕalma che mÕavea parlato qual era tra i cantor del cielo artista. Io mi rivolsi dal mio destro lato per vedere in Beatrice il mio dovere, o per parlare o per atto, segnato; e vidi le sue luci tanto mere, tanto gioconde, che la sua sembianza vinceva li altri e lÕultimo solere. E come, per sentir pi dilettanza bene operando, lÕuom di giorno in giorno sÕaccorge che la sua virtute avanza, s“ mÕaccorsÕ io che Õl mio girare intorno col cielo insieme avea cresciuto lÕarco, veggendo quel miracol pi addorno. E qual  Õl trasmutare in picciol varco di tempo in bianca donna, quando Õl volto suo si discarchi di vergogna il carco, tal fu ne li occhi miei, quando fui v˜lto, per lo candor de la temprata stella sesta, che dentro a sŽ mÕavea ricolto. Io vidi in quella giov•al facella lo sfavillar de lÕamor che l“ era segnare a li occhi miei nostra favella. E come augelli surti di rivera, quasi congratulando a lor pasture, fanno di sŽ or tonda or altra schiera, s“ dentro ai lumi sante creature volitando cantavano, e faciensi or D, or I, or L in sue figure. Prima, cantando, a sua nota moviensi; poi, diventando lÕun di questi segni, un poco sÕarrestavano e taciensi. O diva Pegas‘a che li Õngegni fai glor•osi e rendili longevi, ed essi teco le cittadi e Õ regni, illustrami di te, s“ chÕio rilevi le lor figure comÕ io lÕho concette: paia tua possa in questi versi brevi! Mostrarsi dunque in cinque volte sette vocali e consonanti; e io notai le parti s“, come mi parver dette. ÔDILIGITE IUSTITIAMÕ, primai fur verbo e nome di tutto Õl dipinto; ÔQUI IUDICATIS TERRAMÕ, fur sezzai. Poscia ne lÕemme del vocabol quinto rimasero ordinate; s“ che Giove pareva argento l“ dÕoro distinto. E vidi scendere altre luci dove era il colmo de lÕemme, e l“ quetarsi cantando, credo, il ben chÕa sŽ le move. Poi, come nel percuoter dÕi ciocchi arsi surgono innumerabili faville, onde li stolti sogliono agurarsi, resurger parver quindi pi di mille luci e salir, qual assai e qual poco, s“ come Õl sol che lÕaccende sortille; e qu•etata ciascuna in suo loco, la testa e Õl collo dÕunÕaguglia vidi rappresentare a quel distinto foco. Quei che dipinge l“, non ha chi Õl guidi; ma esso guida, e da lui si rammenta quella virt chՏ forma per li nidi. LÕaltra b‘atitudo, che contenta pareva prima dÕingigliarsi a lÕemme, con poco moto seguit˜ la Õmprenta. O dolce stella, quali e quante gemme mi dimostraro che nostra giustizia effetto sia del ciel che tu ingemme! Per chÕio prego la mente in che sÕinizia tuo moto e tua virtute, che rimiri ondÕ esce il fummo che Õl tuo raggio vizia; s“ chÕunÕaltra f•ata omai sÕadiri del comperare e vender dentro al templo che si mur˜ di segni e di mart“ri. O milizia del ciel cuÕ io contemplo, adora per color che sono in terra tutti sv•ati dietro al malo essemplo! Giˆ si solea con le spade far guerra; ma or si fa togliendo or qui or quivi lo pan che Õl p•o Padre a nessun serra. Ma tu che sol per cancellare scrivi, pensa che Pietro e Paulo, che moriro per la vigna che guasti, ancor son vivi. Ben puoi tu dire: ÇIÕ ho fermo Õl disiro s“ a colui che volle viver solo e che per salti fu tratto al martiro, chÕio non conosco il pescator nŽ PoloÈ. Paradiso á Canto XIX Parea dinanzi a me con lÕali aperte la bella image che nel dolce frui liete facevan lÕanime conserte; parea ciascuna rubinetto in cui raggio di sole ardesse s“ acceso, che neÕ miei occhi rifrangesse lui. E quel che mi convien ritrar testeso, non port˜ voce mai, nŽ scrisse incostro, nŽ fu per fantasia giˆ mai compreso; chÕio vidi e anche udiÕ parlar lo rostro, e sonar ne la voce e ÇioÈ e ÇmioÈ, quandÕ era nel concetto e ÔnoiÕ e ÔnostroÕ. E cominci˜: ÇPer esser giusto e pio son io qui essaltato a quella gloria che non si lascia vincere a disio; e in terra lasciai la mia memoria s“ fatta, che le genti l“ malvage commendan lei, ma non seguon la storiaÈ. Cos“ un sol calor di molte brage si fa sentir, come di molti amori usciva solo un suon di quella image. OndÕ io appresso: ÇO perpetŸi fiori de lÕetterna letizia, che pur uno parer mi fate tutti vostri odori, solvetemi, spirando, il gran digiuno che lungamente mÕha tenuto in fame, non trovandoli in terra cibo alcuno. Ben so io che, se Õn cielo altro reame la divina giustizia fa suo specchio, che Õl vostro non lÕapprende con velame. Sapete come attento io mÕapparecchio ad ascoltar; sapete qual  quello dubbio che mՏ digiun cotanto vecchioÈ. Quasi falcone chÕesce del cappello, move la testa e con lÕali si plaude, voglia mostrando e faccendosi bello, vidÕ io farsi quel segno, che di laude de la divina grazia era contesto, con canti quai si sa chi lˆ s gaude. Poi cominci˜: ÇColui che volse il sesto a lo stremo del mondo, e dentro ad esso distinse tanto occulto e manifesto, non potŽ suo valor s“ fare impresso in tutto lÕuniverso, che Õl suo verbo non rimanesse in infinito eccesso. E ci˜ fa certo che Õl primo superbo, che fu la somma dÕogne creatura, per non aspettar lume, cadde acerbo; e quinci appar chÕogne minor natura  corto recettacolo a quel bene che non ha fine e sŽ con sŽ misura. Dunque vostra veduta, che convene esser alcun deÕ raggi de la mente di che tutte le cose son ripiene, non p˜ da sua natura esser possente tanto, che suo principio discerna molto di lˆ da quel che lՏ parvente. Per˜ ne la giustizia sempiterna la vista che riceve il vostro mondo, comÕ occhio per lo mare, entro sÕinterna; che, ben che da la proda veggia il fondo, in pelago nol vede; e nondimeno li, ma cela lui lÕesser profondo. Lume non , se non vien dal sereno che non si turba mai; anzi  tenbra od ombra de la carne o suo veleno. Assai tՏ mo aperta la latebra che tÕascondeva la giustizia viva, di che facei question cotanto crebra; chŽ tu dicevi: ÒUn uom nasce a la riva de lÕIndo, e quivi non  chi ragioni di Cristo nŽ chi legga nŽ chi scriva; e tutti suoi voleri e atti buoni sono, quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni. Muore non battezzato e sanza fede: ovÕ  questa giustizia che Õl condanna? ovÕ  la colpa sua, se ei non crede?Ó. Or tu chi seÕ, che vuoÕ sedere a scranna, per giudicar di lungi mille miglia con la veduta corta dÕuna spanna? Certo a colui che meco sÕassottiglia, se la Scrittura sovra voi non fosse, da dubitar sarebbe a maraviglia. Oh terreni animali! oh menti grosse! La prima volontˆ, chՏ da sŽ buona, da sŽ, chՏ sommo ben, mai non si mosse. Cotanto  giusto quanto a lei consuona: nullo creato bene a sŽ la tira, ma essa, rad•ando, lui cagionaÈ. Quale sovresso il nido si rigira poi cÕha pasciuti la cicogna i figli, e come quel chՏ pasto la rimira; cotal si fece, e s“ levŠi i cigli, la benedetta imagine, che lÕali movea sospinte da tanti consigli. Roteando cantava, e dicea: ÇQuali son le mie note a te, che non le Õntendi, tal  il giudicio etterno a voi mortaliÈ. Poi si quetaro quei lucenti incendi de lo Spirito Santo ancor nel segno che fŽ i Romani al mondo reverendi, esso ricominci˜: ÇA questo regno non sal“ mai chi non credette Õn Cristo, nŽ pria nŽ poi chÕel si chiavasse al legno. Ma vedi: molti gridan ÒCristo, Cristo!Ó, che saranno in giudicio assai men prope a lui, che tal che non conosce Cristo; e tai Cristian dannerˆ lÕEt•˜pe, quando si partiranno i due collegi, lÕuno in etterno ricco e lÕaltro in˜pe. Che poran dir li Perse aÕ vostri regi, come vedranno quel volume aperto nel qual si scrivon tutti suoi dispregi? L“ si vedrˆ, tra lÕopere dÕAlberto, quella che tosto moverˆ la penna, per che Õl regno di Praga fia diserto. L“ si vedrˆ il duol che sovra Senna induce, falseggiando la moneta, quel che morrˆ di colpo di cotenna. L“ si vedrˆ la superbia chÕasseta, che fa lo Scotto e lÕInghilese folle, s“ che non pu˜ soffrir dentro a sua meta. Vedrassi la lussuria e Õl viver molle di quel di Spagna e di quel di Boemme, che mai valor non conobbe nŽ volle. Vedrassi al Ciotto di Ierusalemme segnata con un i la sua bontate, quando Õl contrario segnerˆ un emme. Vedrassi lÕavarizia e la viltate di quei che guarda lÕisola del foco, ove Anchise fin“ la lunga etate; e a dare ad intender quanto  poco, la sua scrittura fian lettere mozze, che noteranno molto in parvo loco. E parranno a ciascun lÕopere sozze del barba e del fratel, che tanto egregia nazione e due corone han fatte bozze. E quel di Portogallo e di Norvegia l“ si conosceranno, e quel di Rascia che male ha visto il conio di Vinegia. Oh beata Ungheria, se non si lascia pi malmenare! e beata Navarra, se sÕarmasse del monte che la fascia! E creder deÕ ciascun che giˆ, per arra di questo, Niccos•a e Famagosta per la lor bestia si lamenti e garra, che dal fianco de lÕaltre non si scostaÈ. Paradiso á Canto XX Quando colui che tutto Õl mondo alluma de lÕemisperio nostro s“ discende, che Õl giorno dÕogne parte si consuma, lo ciel, che sol di lui prima sÕaccende, subitamente si rifˆ parvente per molte luci, in che una risplende; e questo atto del ciel mi venne a mente, come Õl segno del mondo e deÕ suoi duci nel benedetto rostro fu tacente; per˜ che tutte quelle vive luci, vie pi lucendo, cominciaron canti da mia memoria labili e caduci. O dolce amor che di riso tÕammanti, quanto parevi ardente in queÕ flailli, chÕavieno spirto sol di pensier santi! Poscia che i cari e lucidi lapilli ondÕ io vidi ingemmato il sesto lume puoser silenzio a li angelici squilli, udir mi parve un mormorar di fiume che scende chiaro gi di pietra in pietra, mostrando lÕubertˆ del suo cacume. E come suono al collo de la cetra prende sua forma, e s“ comÕ al pertugio de la sampogna vento che pentra, cos“, rimosso dÕaspettare indugio, quel mormorar de lÕaguglia salissi su per lo collo, come fosse bugio. Fecesi voce quivi, e quindi uscissi per lo suo becco in forma di parole, quali aspettava il core ovÕ io le scrissi. ÇLa parte in me che vede e pate il sole ne lÕaguglie mortaliÈ, incominciommi, Çor fisamente riguardar si vole, perchŽ dÕi fuochi ondÕ io figura fommi, quelli onde lÕocchio in testa mi scintilla, eÕ di tutti lor gradi son li sommi. Colui che luce in mezzo per pupilla, fu il cantor de lo Spirito Santo, che lÕarca traslat˜ di villa in villa: ora conosce il merto del suo canto, in quanto effetto fu del suo consiglio, per lo remunerar chՏ altrettanto. Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio, colui che pi al becco mi sÕaccosta, la vedovella consol˜ del figlio: ora conosce quanto caro costa non seguir Cristo, per lÕesper•enza di questa dolce vita e de lÕopposta. E quel che segue in la circunferenza di che ragiono, per lÕarco superno, morte indugi˜ per vera penitenza: ora conosce che Õl giudicio etterno non si trasmuta, quando degno preco fa crastino lˆ gi de lÕod•erno. LÕaltro che segue, con le leggi e meco, sotto buona intenzion che fŽ mal frutto, per cedere al pastor si fece greco: ora conosce come il mal dedutto dal suo bene operar non li  nocivo, avvegna che sia Õl mondo indi distrutto. E quel che vedi ne lÕarco declivo, Guiglielmo fu, cui quella terra plora che piagne Carlo e Federigo vivo: ora conosce come sÕinnamora lo ciel del giusto rege, e al sembiante del suo fulgore il fa vedere ancora. Chi crederebbe gi nel mondo errante che Rif‘o Troiano in questo tondo fosse la quinta de le luci sante? Ora conosce assai di quel che Õl mondo veder non pu˜ de la divina grazia, ben che sua vista non discerna il fondoÈ. Quale allodetta che Õn aere si spazia prima cantando, e poi tace contenta de lÕultima dolcezza che la sazia, tal mi sembi˜ lÕimago de la Õmprenta de lÕetterno piacere, al cui disio ciascuna cosa qual ellÕ  diventa. E avvegna chÕio fossi al dubbiar mio l“ quasi vetro a lo color chÕel veste, tempo aspettar tacendo non patio, ma de la bocca, ÇChe cose son queste?È, mi pinse con la forza del suo peso: per chÕio di coruscar vidi gran feste. Poi appresso, con lÕocchio pi acceso, lo benedetto segno mi rispuose per non tenermi in ammirar sospeso: ÇIo veggio che tu credi queste cose perchÕ io le dico, ma non vedi come; s“ che, se son credute, sono ascose. Fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate veder non pu˜ se altri non la prome. Regnum celorum v•olenza pate da caldo amore e da viva speranza, che vince la divina volontate: non a guisa che lÕomo a lÕom sobranza, ma vince lei perchŽ vuole esser vinta, e, vinta, vince con sua beninanza. La prima vita del ciglio e la quinta ti fa maravigliar, perchŽ ne vedi la reg•on de li angeli dipinta. DÕi corpi suoi non uscir, come credi, Gentili, ma Cristiani, in ferma fede quel dÕi passuri e quel dÕi passi piedi. ChŽ lÕuna de lo Õnferno, uÕ non si riede giˆ mai a buon voler, torn˜ a lÕossa; e ci˜ di viva spene fu mercede: di viva spene, che mise la possa neÕ prieghi fatti a Dio per suscitarla, s“ che potesse sua voglia esser mossa. LÕanima glor•osa onde si parla, tornata ne la carne, in che fu poco, credette in lui che pot‘a aiutarla; e credendo sÕaccese in tanto foco di vero amor, chÕa la morte seconda fu degna di venire a questo gioco. LÕaltra, per grazia che da s“ profonda fontana stilla, che mai creatura non pinse lÕocchio infino a la prima onda, tutto suo amor lˆ gi pose a drittura: per che, di grazia in grazia, Dio li aperse lÕocchio a la nostra redenzion futura; ondÕ ei credette in quella, e non sofferse da indi il puzzo pi del paganesmo; e riprendiene le genti perverse. Quelle tre donne li fur per battesmo che tu vedesti da la destra rota, dinanzi al battezzar pi dÕun millesmo. O predestinazion, quanto remota  la radice tua da quelli aspetti che la prima cagion non veggion tota! E voi, mortali, tenetevi stretti a giudicar: chŽ noi, che Dio vedemo, non conosciamo ancor tutti li eletti; ed nne dolce cos“ fatto scemo, perchŽ il ben nostro in questo ben sÕaffina, che quel che vole Iddio, e noi volemoÈ. Cos“ da quella imagine divina, per farmi chiara la mia corta vista, data mi fu soave medicina. E come a buon cantor buon citarista fa seguitar lo guizzo de la corda, in che pi di piacer lo canto acquista, s“, mentre chÕeÕ parl˜, s“ mi ricorda chÕio vidi le due luci benedette, pur come batter dÕocchi si concorda, con le parole mover le fiammette. Paradiso á Canto XXI Giˆ eran li occhi miei rifissi al volto de la mia donna, e lÕanimo con essi, e da ogne altro intento sÕera tolto. E quella non ridea; ma ÇSÕio ridessiÈ, mi cominci˜, Çtu ti faresti quale fu Semel quando di cener fessi: chŽ la bellezza mia, che per le scale de lÕetterno palazzo pi sÕaccende, comÕ hai veduto, quanto pi si sale, se non si temperasse, tanto splende, che Õl tuo mortal podere, al suo fulgore, sarebbe fronda che trono scoscende. Noi sem levati al settimo splendore, che sotto Õl petto del Leone ardente raggia mo misto gi del suo valore. Ficca di retro a li occhi tuoi la mente, e fa di quelli specchi a la figura che Õn questo specchio ti sarˆ parventeÈ. Qual savesse qual era la pastura del viso mio ne lÕaspetto beato quandÕ io mi trasmutai ad altra cura, conoscerebbe quanto mÕera a grato ubidire a la mia celeste scorta, contrapesando lÕun con lÕaltro lato. Dentro al cristallo che Õl vocabol porta, cerchiando il mondo, del suo caro duce sotto cui giacque ogne malizia morta, di color dÕoro in che raggio traluce vidÕ io uno scaleo eretto in suso tanto, che nol seguiva la mia luce. Vidi anche per li gradi scender giuso tanti splendor, chÕio pensai chÕogne lume che par nel ciel, quindi fosse diffuso. E come, per lo natural costume, le pole insieme, al cominciar del giorno, si movono a scaldar le fredde piume; poi altre vanno via sanza ritorno, altre rivolgon sŽ onde son mosse, e altre roteando fan soggiorno; tal modo parve me che quivi fosse in quello sfavillar che Õnsieme venne, s“ come in certo grado si percosse. E quel che presso pi ci si ritenne, si fŽ s“ chiaro, chÕio dicea pensando: ÔIo veggio ben lÕamor che tu mÕaccenne. Ma quella ondÕ io aspetto il come e Õl quando del dire e del tacer, si sta; ondÕ io, contra Õl disio, fo ben chÕio non dimandoÕ. Per chÕella, che ved‘a il tacer mio nel veder di colui che tutto vede, mi disse: ÇSolvi il tuo caldo disioÈ. E io incominciai: ÇLa mia mercede non mi fa degno de la tua risposta; ma per colei che Õl chieder mi concede, vita beata che ti stai nascosta dentro a la tua letizia, fammi nota la cagion che s“ presso mi tÕha posta; e d“ perchŽ si tace in questa rota la dolce sinfonia di paradiso, che gi per lÕaltre suona s“ divotaÈ. ÇTu hai lÕudir mortal s“ come il visoÈ, rispuose a me; Çonde qui non si canta per quel che B‘atrice non ha riso. Gi per li gradi de la scala santa discesi tanto sol per farti festa col dire e con la luce che mi ammanta; nŽ pi amor mi fece esser pi presta, chŽ pi e tanto amor quinci s ferve, s“ come il fiammeggiar ti manifesta. Ma lÕalta caritˆ, che ci fa serve pronte al consiglio che Õl mondo governa, sorteggia qui s“ come tu osserveÈ. ÇIo veggio benÈ, dissÕ io, Çsacra lucerna, come libero amore in questa corte basta a seguir la provedenza etterna; ma questo  quel chÕa cerner mi par forte, perchŽ predestinata fosti sola a questo officio tra le tue consorteÈ. NŽ venni prima a lÕultima parola, che del suo mezzo fece il lume centro, girando sŽ come veloce mola; poi rispuose lÕamor che vÕera dentro: ÇLuce divina sopra me sÕappunta, penetrando per questa in chÕio mÕinventro, la cui virt, col mio veder congiunta, mi leva sopra me tanto, chÕiÕ veggio la somma essenza de la quale  munta. Quinci vien lÕallegrezza ondÕ io fiammeggio; per chÕa la vista mia, quantÕ ella  chiara, la chiaritˆ de la fiamma pareggio. Ma quellÕ alma nel ciel che pi si schiara, quel serafin che Õn Dio pi lÕocchio ha fisso, a la dimanda tua non satisfara, per˜ che s“ sÕinnoltra ne lo abisso de lÕetterno statuto quel che chiedi, che da ogne creata vista  scisso. E al mondo mortal, quando tu riedi, questo rapporta, s“ che non presumma a tanto segno pi mover li piedi. La mente, che qui luce, in terra fumma; onde riguarda come pu˜ lˆ gie quel che non pote perchŽ Õl ciel lÕassummaÈ. S“ mi prescrisser le parole sue, chÕio lasciai la quistione e mi ritrassi a dimandarla umilmente chi fue. ÇTra Õ due liti dÕItalia surgon sassi, e non molto distanti a la tua patria, tanto che Õ troni assai suonan pi bassi, e fanno un gibbo che si chiama Catria, di sotto al quale  consecrato un ermo, che suole esser disposto a sola latriaÈ. Cos“ ricominciommi il terzo sermo; e poi, continŸando, disse: ÇQuivi al servigio di Dio mi feÕ s“ fermo, che pur con cibi di liquor dÕulivi lievemente passava caldi e geli, contento neÕ pensier contemplativi. Render solea quel chiostro a questi cieli fertilemente; e ora  fatto vano, s“ che tosto convien che si riveli. In quel loco fuÕ io Pietro Damiano, e Pietro Peccator fuÕ ne la casa di Nostra Donna in sul lito adriano. Poca vita mortal mÕera rimasa, quando fui chiesto e tratto a quel cappello, che pur di male in peggio si travasa. Venne Cefˆs e venne il gran vasello de lo Spirito Santo, magri e scalzi, prendendo il cibo da qualunque ostello. Or voglion quinci e quindi chi rincalzi li moderni pastori e chi li meni, tanto son gravi, e chi di rietro li alzi. Cuopron dÕi manti loro i palafreni, s“ che due bestie van sottÕ una pelle: oh paz•enza che tanto sostieni!È. A questa voce vidÕ io pi fiammelle di grado in grado scendere e girarsi, e ogne giro le facea pi belle. Dintorno a questa vennero e fermarsi, e fero un grido di s“ alto suono, che non potrebbe qui assomigliarsi; nŽ io lo Õntesi, s“ mi vinse il tuono. Paradiso á Canto XXII Oppresso di stupore, a la mia guida mi volsi, come parvol che ricorre sempre colˆ dove pi si confida; e quella, come madre che soccorre sbito al figlio palido e anelo con la sua voce, che Õl suol ben disporre, mi disse: ÇNon sai tu che tu seÕ in cielo? e non sai tu che Õl cielo  tutto santo, e ci˜ che ci si fa vien da buon zelo? Come tÕavrebbe trasmutato il canto, e io ridendo, mo pensar lo puoi, poscia che Õl grido tÕha mosso cotanto; nel qual, se Õnteso avessi i prieghi suoi, giˆ ti sarebbe nota la vendetta che tu vedrai innanzi che tu muoi. La spada di qua s non taglia in fretta nŽ tardo, maÕ chÕal parer di colui che dis•ando o temendo lÕaspetta. Ma rivolgiti omai inverso altrui; chÕassai illustri spiriti vedrai, se comÕ io dico lÕaspetto reduiÈ. Come a lei piacque, li occhi ritornai, e vidi cento sperule che Õnsieme pi sÕabbellivan con mutŸi rai. Io stava come quei che Õn sŽ repreme la punta del disio, e non sÕattenta di domandar, s“ del troppo si teme; e la maggiore e la pi luculenta di quelle margherite innanzi fessi, per far di sŽ la mia voglia contenta. Poi dentro a lei udiÕ: ÇSe tu vedessi comÕ io la caritˆ che tra noi arde, li tuoi concetti sarebbero espressi. Ma perchŽ tu, aspettando, non tarde a lÕalto fine, io ti far˜ risposta pur al pensier, da che s“ ti riguarde. Quel monte a cui Cassino  ne la costa fu frequentato giˆ in su la cima da la gente ingannata e mal disposta; e quel son io che s vi portai prima lo nome di colui che Õn terra addusse la veritˆ che tanto ci soblima; e tanta grazia sopra me relusse, chÕio ritrassi le ville circunstanti da lÕempio c—lto che Õl mondo sedusse. Questi altri fuochi tutti contemplanti uomini fuoro, accesi di quel caldo che fa nascere i fiori e Õ frutti santi. Qui  Maccario, qui  Romoaldo, qui son li frati miei che dentro ai chiostri fermar li piedi e tennero il cor saldoÈ. E io a lui: ÇLÕaffetto che dimostri meco parlando, e la buona sembianza chÕio veggio e noto in tutti li ardor vostri, cos“ mÕha dilatata mia fidanza, come Õl sol fa la rosa quando aperta tanto divien quantÕ ellÕ ha di possanza. Per˜ ti priego, e tu, padre, mÕaccerta sÕio posso prender tanta grazia, chÕio ti veggia con imagine scovertaÈ. OndÕ elli: ÇFrate, il tuo alto disio sÕadempierˆ in su lÕultima spera, ove sÕadempion tutti li altri e Õl mio. Ivi  perfetta, matura e intera ciascuna dis•anza; in quella sola  ogne parte lˆ ove semprÕ era, perchŽ non  in loco e non sÕimpola; e nostra scala infino ad essa varca, onde cos“ dal viso ti sÕinvola. Infin lˆ s la vide il patriarca Iacobbe porger la superna parte, quando li apparve dÕangeli s“ carca. Ma, per salirla, mo nessun diparte da terra i piedi, e la regola mia rimasa  per danno de le carte. Le mura che solieno esser badia fatte sono spelonche, e le cocolle sacca son piene di farina ria. Ma grave usura tanto non si tolle contra Õl piacer di Dio, quanto quel frutto che fa il cor deÕ monaci s“ folle; chŽ quantunque la Chiesa guarda, tutto  de la gente che per Dio dimanda; non di parenti nŽ dÕaltro pi brutto. La carne dÕi mortali  tanto blanda, che gi non basta buon cominciamento dal nascer de la quercia al far la ghianda. Pier cominci˜ sanzÕ oro e sanzÕ argento, e io con orazione e con digiuno, e Francesco umilmente il suo convento; e se guardi Õl principio di ciascuno, poscia riguardi lˆ dovÕ  trascorso, tu vederai del bianco fatto bruno. Veramente Iordan v˜lto retrorso pi fu, e Õl mar fuggir, quando Dio volse, mirabile a veder che qui Õl soccorsoÈ. Cos“ mi disse, e indi si raccolse al suo collegio, e Õl collegio si strinse; poi, come turbo, in s tutto sÕavvolse. La dolce donna dietro a lor mi pinse con un sol cenno su per quella scala, s“ sua virt la mia natura vinse; nŽ mai qua gi dove si monta e cala naturalmente, fu s“ ratto moto chÕagguagliar si potesse a la mia ala. SÕio torni mai, lettore, a quel divoto tr•unfo per lo quale io piango spesso le mie peccata e Õl petto mi percuoto, tu non avresti in tanto tratto e messo nel foco il dito, in quantÕ io vidi Õl segno che segue il Tauro e fui dentro da esso. O glor•ose stelle, o lume pregno di gran virt, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, con voi nasceva e sÕascondeva vosco quelli chՏ padre dÕogne mortal vita, quandÕ io sentiÕ di prima lÕaere tosco; e poi, quando mi fu grazia largita dÕentrar ne lÕalta rota che vi gira, la vostra reg•on mi fu sortita. A voi divotamente ora sospira lÕanima mia, per acquistar virtute al passo forte che a sŽ la tira. ÇTu seÕ s“ presso a lÕultima saluteÈ, cominci˜ B‘atrice, Çche tu dei aver le luci tue chiare e acute; e per˜, prima che tu pi tÕinlei, rimira in gi, e vedi quanto mondo sotto li piedi giˆ esser ti fei; s“ che Õl tuo cor, quantunque pu˜, giocondo sÕappresenti a la turba tr•unfante che lieta vien per questo etera tondoÈ. Col viso ritornai per tutte quante le sette spere, e vidi questo globo tal, chÕio sorrisi del suo vil sembiante; e quel consiglio per migliore approbo che lÕha per meno; e chi ad altro pensa chiamar si puote veramente probo. Vidi la figlia di Latona incensa sanza quellÕ ombra che mi fu cagione per che giˆ la credetti rara e densa. LÕaspetto del tuo nato, Iper•one, quivi sostenni, e vidi comÕ si move circa e vicino a lui Maia e D•one. Quindi mÕapparve il temperar di Giove tra Õl padre e Õl figlio; e quindi mi fu chiaro il var•ar che fanno di lor dove; e tutti e sette mi si dimostraro quanto son grandi e quanto son veloci e come sono in distante riparo. LÕaiuola che ci fa tanto feroci, volgendomÕ io con li etterni Gemelli, tutta mÕapparve daÕ colli a le foci; poscia rivolsi li occhi a li occhi belli. Paradiso á Canto XXIII Come lÕaugello, intra lÕamate fronde, posato al nido deÕ suoi dolci nati la notte che le cose ci nasconde, che, per veder li aspetti dis•ati e per trovar lo cibo onde li pasca, in che gravi labor li sono aggrati, previene il tempo in su aperta frasca, e con ardente affetto il sole aspetta, fiso guardando pur che lÕalba nasca; cos“ la donna m•a stava eretta e attenta, rivolta inverÕ la plaga sotto la quale il sol mostra men fretta: s“ che, veggendola io sospesa e vaga, fecimi qual  quei che dis•ando altro vorria, e sperando sÕappaga. Ma poco fu tra uno e altro quando, del mio attender, dico, e del vedere lo ciel venir pi e pi rischiarando; e B‘atrice disse: ÇEcco le schiere del tr•unfo di Cristo e tutto Õl frutto ricolto del girar di queste spere!È. Pariemi che Õl suo viso ardesse tutto, e li occhi avea di letizia s“ pieni, che passarmen convien sanza costrutto. Quale neÕ plenilun•i sereni Triv•a ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni, vidÕ iÕ sopra migliaia di lucerne un sol che tutte quante lÕaccendea, come fa Õl nostro le viste superne; e per la viva luce trasparea la lucente sustanza tanto chiara nel viso mio, che non la sostenea. Oh B‘atrice, dolce guida e cara! Ella mi disse: ÇQuel che ti sobranza  virt da cui nulla si ripara. Quivi  la sap•enza e la possanza chÕapr“ le strade tra Õl cielo e la terra, onde fu giˆ s“ lunga dis•anzaÈ. Come foco di nube si diserra per dilatarsi s“ che non vi cape, e fuor di sua natura in gi sÕatterra, la mente mia cos“, tra quelle dape fatta pi grande, di sŽ stessa usc“o, e che si fesse rimembrar non sape. ÇApri li occhi e riguarda qual son io; tu hai vedute cose, che possente seÕ fatto a sostener lo riso mioÈ. Io era come quei che si risente di vis•one oblita e che sÕingegna indarno di ridurlasi a la mente, quandÕ io udiÕ questa proferta, degna di tanto grato, che mai non si stingue del libro che Õl preterito rassegna. Se mo sonasser tutte quelle lingue che Polimn•a con le suore fero del latte lor dolcissimo pi pingue, per aiutarmi, al millesmo del vero non si verria, cantando il santo riso e quanto il santo aspetto facea mero; e cos“, figurando il paradiso, convien saltar lo sacrato poema, come chi trova suo cammin riciso. Ma chi pensasse il ponderoso tema e lÕomero mortal che se ne carca, nol biasmerebbe se sottÕ esso trema: non  pareggio da picciola barca quel che fendendo va lÕardita prora, nŽ da nocchier chÕa sŽ medesmo parca. ÇPerchŽ la faccia mia s“ tÕinnamora, che tu non ti rivolgi al bel giardino che sotto i raggi di Cristo sÕinfiora? Quivi  la rosa in che Õl verbo divino carne si fece; quivi son li gigli al cui odor si prese il buon camminoÈ. Cos“ Beatrice; e io, che aÕ suoi consigli tutto era pronto, ancora mi rendei a la battaglia deÕ debili cigli. Come a raggio di sol, che puro mei per fratta nube, giˆ prato di fiori vider, coverti dÕombra, li occhi miei; vidÕ io cos“ pi turbe di splendori, folgorate di s da raggi ardenti, sanza veder principio di folg—ri. O benigna vert che s“ li Õmprenti, s tÕessaltasti, per largirmi loco a li occhi l“ che non tÕeran possenti. Il nome del bel fior chÕio sempre invoco e mane e sera, tutto mi ristrinse lÕanimo ad avvisar lo maggior foco; e come ambo le luci mi dipinse il quale e il quanto de la viva stella che lˆ s vince come qua gi vinse, per entro il cielo scese una facella, formata in cerchio a guisa di corona, e cinsela e girossi intorno ad ella. Qualunque melodia pi dolce suona qua gi e pi a sŽ lÕanima tira, parrebbe nube che squarciata tona, comparata al sonar di quella lira onde si coronava il bel zaffiro del quale il ciel pi chiaro sÕinzaffira. ÇIo sono amore angelico, che giro lÕalta letizia che spira del ventre che fu albergo del nostro disiro; e girerommi, donna del ciel, mentre che seguirai tuo figlio, e farai dia pi la spera suprema perchŽ l“ entreÈ. Cos“ la circulata melodia si sigillava, e tutti li altri lumi facean sonare il nome di Maria. Lo real manto di tutti i volumi del mondo, che pi ferve e pi sÕavviva ne lÕalito di Dio e nei costumi, avea sopra di noi lÕinterna riva tanto distante, che la sua parvenza, lˆ dovÕ io era, ancor non appariva: per˜ non ebber li occhi miei potenza di seguitar la coronata fiamma che si lev˜ appresso sua semenza. E come fantolin che ÕnverÕ la mamma tende le braccia, poi che Õl latte prese, per lÕanimo che Õnfin di fuor sÕinfiamma; ciascun di quei candori in s si stese con la sua cima, s“ che lÕalto affetto chÕelli avieno a Maria mi fu palese. Indi rimaser l“ nel mio cospetto, ÔRegina celiÕ cantando s“ dolce, che mai da me non si part“ Õl diletto. Oh quanta  lÕubertˆ che si soffolce in quelle arche ricchissime che fuoro a seminar qua gi buone bobolce! Quivi si vive e gode del tesoro che sÕacquist˜ piangendo ne lo essilio di Babill˜n, ove si lasci˜ lÕoro. Quivi tr•unfa, sotto lÕalto Filio di Dio e di Maria, di sua vittoria, e con lÕantico e col novo concilio, colui che tien le chiavi di tal gloria. Paradiso á Canto XXIV ÇO sodalizio eletto a la gran cena del benedetto Agnello, il qual vi ciba s“, che la vostra voglia  sempre piena, se per grazia di Dio questi preliba di quel che cade de la vostra mensa, prima che morte tempo li prescriba, ponete mente a lÕaffezione immensa e roratelo alquanto: voi bevete sempre del fonte onde vien quel chÕei pensaÈ. Cos“ Beatrice; e quelle anime liete si fero spere sopra fissi poli, fiammando, a volte, a guisa di comete. E come cerchi in tempra dÕor•uoli si giran s“, che Õl primo a chi pon mente qu•eto pare, e lÕultimo che voli; cos“ quelle carole, differente- mente danzando, de la sua ricchezza mi facieno stimar, veloci e lente. Di quella chÕio notai di pi carezza vidÕ •o uscire un foco s“ felice, che nullo vi lasci˜ di pi chiarezza; e tre f•ate intorno di Beatrice si volse con un canto tanto divo, che la mia fantasia nol mi ridice. Per˜ salta la penna e non lo scrivo: chŽ lÕimagine nostra a cotai pieghe, non che Õl parlare,  troppo color vivo. ÇO santa suora mia che s“ ne prieghe divota, per lo tuo ardente affetto da quella bella spera mi dislegheÈ. Poscia fermato, il foco benedetto a la mia donna dirizz˜ lo spiro, che favell˜ cos“ comÕ iÕ ho detto. Ed ella: ÇO luce etterna del gran viro a cui Nostro Segnor lasci˜ le chiavi, chÕei port˜ gi, di questo gaudio miro, tenta costui di punti lievi e gravi, come ti piace, intorno de la fede, per la qual tu su per lo mare andavi. SÕelli ama bene e bene spera e crede, non tՏ occulto, perchŽ Õl viso hai quivi dovÕ ogne cosa dipinta si vede; ma perchŽ questo regno ha fatto civi per la verace fede, a glor•arla, di lei parlare  ben chÕa lui arriviÈ. S“ come il baccialier sÕarma e non parla fin che Õl maestro la question propone, per approvarla, non per terminarla, cos“ mÕarmava io dÕogne ragione mentre chÕella dicea, per esser presto a tal querente e a tal professione. ÇD“, buon Cristiano, fatti manifesto: fede che ?È. OndÕ io levai la fronte in quella luce onde spirava questo; poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte sembianze femmi perchÕ •o spandessi lÕacqua di fuor del mio interno fonte. ÇLa Grazia che mi dˆ chÕio mi confessiÈ, cominciaÕ io, Çda lÕalto primipilo, faccia li miei concetti bene espressiÈ. E seguitai: ÇCome Õl verace stilo ne scrisse, padre, del tuo caro frate che mise teco Roma nel buon filo, fede  sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi; e questa pare a me sua quiditateÈ. Allora udiÕ: ÇDirittamente senti, se bene intendi perchŽ la ripuose tra le sustanze, e poi tra li argomentiÈ. E io appresso: ÇLe profonde cose che mi largiscon qui la lor parvenza, a li occhi di lˆ gi son s“ ascose, che lÕesser loro vՏ in sola credenza, sopra la qual si fonda lÕalta spene; e per˜ di sustanza prende intenza. E da questa credenza ci convene silogizzar, sanzÕ avere altra vista: per˜ intenza dÕargomento teneÈ. Allora udiÕ: ÇSe quantunque sÕacquista gi per dottrina, fosse cos“ Õnteso, non l“ avria loco ingegno di sofistaÈ. Cos“ spir˜ di quello amore acceso; indi soggiunse: ÇAssai bene  trascorsa dÕesta moneta giˆ la lega e Õl peso; ma dimmi se tu lÕhai ne la tua borsaÈ. OndÕ io: ÇS“ ho, s“ lucida e s“ tonda, che nel suo conio nulla mi sÕinforsaÈ. Appresso usc“ de la luce profonda che l“ splendeva: ÇQuesta cara gioia sopra la quale ogne virt si fonda, onde ti venne?È. E io: ÇLa larga ploia de lo Spirito Santo, chՏ diffusa in su le vecchie e Õn su le nuove cuoia,  silogismo che la mÕha conchiusa acutamente s“, che Õnverso dÕella ogne dimostrazion mi pare ottusaÈ. Io udiÕ poi: ÇLÕantica e la novella proposizion che cos“ ti conchiude, perchŽ lÕhai tu per divina favella?È. E io: ÇLa prova che Õl ver mi dischiude, son lÕopere seguite, a che natura non scalda ferro mai nŽ batte incudeÈ. Risposto fummi: ÇD“, chi tÕassicura che quellÕ opere fosser? Quel medesmo che vuol provarsi, non altri, il ti giuraÈ. ÇSe Õl mondo si rivolse al cristianesmoÈ, dissÕ io, Çsanza miracoli, questÕ uno  tal, che li altri non sono il centesmo: chŽ tu intrasti povero e digiuno in campo, a seminar la buona pianta che fu giˆ vite e ora  fatta prunoÈ. Finito questo, lÕalta corte santa rison˜ per le spere un ÔDio laudamoÕ ne la melode che lˆ s si canta. E quel baron che s“ di ramo in ramo, essaminando, giˆ tratto mÕavea, che a lÕultime fronde appressavamo, ricominci˜: ÇLa Grazia, che donnea con la tua mente, la bocca tÕaperse infino a qui come aprir si dovea, s“ chÕio approvo ci˜ che fuori emerse; ma or convien espremer quel che credi, e onde a la credenza tua sÕofferseÈ. ÇO santo padre, e spirito che vedi ci˜ che credesti s“, che tu vincesti verÕ lo sepulcro pi giovani piediÈ, cominciaÕ io, Çtu vuoÕ chÕio manifesti la forma qui del pronto creder mio, e anche la cagion di lui chiedesti. E io rispondo: Io credo in uno Dio solo ed etterno, che tutto Õl ciel move, non moto, con amore e con disio; e a tal creder non ho io pur prove fisice e metafisice, ma dalmi anche la veritˆ che quinci piove per Mo•s, per profeti e per salmi, per lÕEvangelio e per voi che scriveste poi che lÕardente Spirto vi fŽ almi; e credo in tre persone etterne, e queste credo una essenza s“ una e s“ trina, che soffera congiunto ÔsonoÕ ed ÔesteÕ. De la profonda condizion divina chÕio tocco mo, la mente mi sigilla pi volte lÕevangelica dottrina. QuestÕ  Õl principio, questÕ  la favilla che si dilata in fiamma poi vivace, e come stella in cielo in me scintillaÈ. Come Õl segnor chÕascolta quel che i piace, da indi abbraccia il servo, gratulando per la novella, tosto chÕel si tace; cos“, benedicendomi cantando, tre volte cinse me, s“ comÕ io tacqui, lÕappostolico lume al cui comando io avea detto: s“ nel dir li piacqui! Paradiso á Canto XXV Se mai continga che Õl poema sacro al quale ha posto mano e cielo e terra, s“ che mÕha fatto per molti anni macro, vinca la crudeltˆ che fuor mi serra del bello ovile ovÕ io dormiÕ agnello, nimico ai lupi che li danno guerra; con altra voce omai, con altro vello ritorner˜ poeta, e in sul fonte del mio battesmo prender˜ Õl cappello; per˜ che ne la fede, che fa conte lÕanime a Dio, quivi intraÕ io, e poi Pietro per lei s“ mi gir˜ la fronte. Indi si mosse un lume verso noi di quella spera ondÕ usc“ la primizia che lasci˜ Cristo dÕi vicari suoi; e la mia donna, piena di letizia, mi disse: ÇMira, mira: ecco il barone per cui lˆ gi si vicita GaliziaÈ. S“ come quando il colombo si pone presso al compagno, lÕuno a lÕaltro pande, girando e mormorando, lÕaffezione; cos“ vidÕ •o lÕun da lÕaltro grande principe glor•oso essere accolto, laudando il cibo che lˆ s li prande. Ma poi che Õl gratular si fu assolto, tacito coram me ciascun sÕaffisse, ignito s“ che vinc‘a Õl mio volto. Ridendo allora B‘atrice disse: ÇInclita vita per cui la larghezza de la nostra basilica si scrisse, fa risonar la spene in questa altezza: tu sai, che tante fiate la figuri, quante Ies ai tre fŽ pi carezzaÈ. ÇLeva la testa e fa che tÕassicuri: che ci˜ che vien qua s del mortal mondo, convien chÕai nostri raggi si maturiÈ. Questo conforto del foco secondo mi venne; ondÕ io levŠi li occhi aÕ monti che li Õncurvaron pria col troppo pondo. ÇPoi che per grazia vuol che tu tÕaffronti lo nostro Imperadore, anzi la morte, ne lÕaula pi secreta coÕ suoi conti, s“ che, veduto il ver di questa corte, la spene, che lˆ gi bene innamora, in te e in altrui di ci˜ conforte, diÕ quel chÕellÕ , diÕ come se ne Õnfiora la mente tua, e d“ onde a te venneÈ. Cos“ segu“ Õl secondo lume ancora. E quella p•a che guid˜ le penne de le mie ali a cos“ alto volo, a la risposta cos“ mi prevenne: ÇLa Chiesa militante alcun figliuolo non ha con pi speranza, comÕ  scritto nel Sol che raggia tutto nostro stuolo: per˜ li  conceduto che dÕEgitto vegna in Ierusalemme per vedere, anzi che Õl militar li sia prescritto. Li altri due punti, che non per sapere son dimandati, ma perchÕ ei rapporti quanto questa virt tՏ in piacere, a lui lascÕ io, chŽ non li saran forti nŽ di iattanza; ed elli a ci˜ risponda, e la grazia di Dio ci˜ li comportiÈ. Come discente chÕa dottor seconda pronto e libente in quel chÕelli  esperto, perchŽ la sua bontˆ si disasconda, ÇSpeneÈ, dissÕ io, Ǐ uno attender certo de la gloria futura, il qual produce grazia divina e precedente merto. Da molte stelle mi vien questa luce; ma quei la distill˜ nel mio cor pria che fu sommo cantor del sommo duce. ÔSperino in teÕ, ne la sua t‘odia dice, Ôcolor che sanno il nome tuoÕ: e chi nol sa, sÕelli ha la fede mia? Tu mi stillasti, con lo stillar suo, ne la pistola poi; s“ chÕio son pieno, e in altrui vostra pioggia repluoÈ. MentrÕ io diceva, dentro al vivo seno di quello incendio tremolava un lampo sbito e spesso a guisa di baleno. Indi spir˜: ÇLÕamore ondÕ •o avvampo ancor verÕ la virt che mi seguette infin la palma e a lÕuscir del campo, vuol chÕio respiri a te che ti dilette di lei; ed emmi a grato che tu diche quello che la speranza ti ÕmprometteÈ. E io: ÇLe nove e le scritture antiche pongon lo segno, ed esso lo mi addita, de lÕanime che Dio sÕha fatte amiche. Dice Isaia che ciascuna vestita ne la sua terra fia di doppia vesta: e la sua terra  questa dolce vita; e Õl tuo fratello assai vie pi digesta, lˆ dove tratta de le bianche stole, questa revelazion ci manifestaÈ. E prima, appresso al fin dÕeste parole, ÔSperent in teÕ di soprÕ a noi sÕud“; a che rispuoser tutte le carole. Poscia tra esse un lume si schiar“ s“ che, se Õl Cancro avesse un tal cristallo, lÕinverno avrebbe un mese dÕun sol d“. E come surge e va ed entra in ballo vergine lieta, sol per fare onore a la novizia, non per alcun fallo, cos“ vidÕ io lo schiarato splendore venire aÕ due che si volgieno a nota qual conveniesi al loro ardente amore. Misesi l“ nel canto e ne la rota; e la mia donna in lor tenea lÕaspetto, pur come sposa tacita e immota. ÇQuesti  colui che giacque sopra Õl petto del nostro pellicano, e questi fue di su la croce al grande officio elettoÈ. La donna mia cos“; nŽ per˜ pie mosser la vista sua di stare attenta poscia che prima le parole sue. Qual  colui chÕadocchia e sÕargomenta di vedere eclissar lo sole un poco, che, per veder, non vedente diventa; tal mi fecÕ •o a quellÕ ultimo foco mentre che detto fu: ÇPerchŽ tÕabbagli per veder cosa che qui non ha loco? In terra  terra il mio corpo, e saragli tanto con li altri, che Õl numero nostro con lÕetterno proposito sÕagguagli. Con le due stole nel beato chiostro son le due luci sole che saliro; e questo apporterai nel mondo vostroÈ. A questa voce lÕinfiammato giro si qu•et˜ con esso il dolce mischio che si facea nel suon del trino spiro, s“ come, per cessar fatica o rischio, li remi, pria ne lÕacqua ripercossi, tutti si posano al sonar dÕun fischio. Ahi quanto ne la mente mi commossi, quando mi volsi per veder Beatrice, per non poter veder, benchŽ io fossi presso di lei, e nel mondo felice! Paradiso á Canto XXVI MentrÕ io dubbiava per lo viso spento, de la fulgida fiamma che lo spense usc“ un spiro che mi fece attento, dicendo: ÇIntanto che tu ti risense de la vista che ha• in me consunta, ben  che ragionando la compense. Comincia dunque; e d“ ove sÕappunta lÕanima tua, e fa ragion che sia la vista in te smarrita e non defunta: perchŽ la donna che per questa dia reg•on ti conduce, ha ne lo sguardo la virt chÕebbe la man dÕAnaniaÈ. Io dissi: ÇAl suo piacere e tosto e tardo vegna remedio a li occhi, che fuor porte quandÕ ella entr˜ col foco ondÕ io semprÕ ardo. Lo ben che fa contenta questa corte, Alfa e O  di quanta scrittura mi legge Amore o lievemente o forteÈ. Quella medesma voce che paura tolta mÕavea del sbito abbarbaglio, di ragionare ancor mi mise in cura; e disse: ÇCerto a pi angusto vaglio ti conviene schiarar: dicer convienti chi drizz˜ lÕarco tuo a tal berzaglioÈ. E io: ÇPer filosofici argomenti e per autoritˆ che quinci scende cotale amor convien che in me si Õmprenti: chŽ Õl bene, in quanto ben, come sÕintende, cos“ accende amore, e tanto maggio quanto pi di bontate in sŽ comprende. Dunque a lÕessenza ovÕ  tanto avvantaggio, che ciascun ben che fuor di lei si trova altro non  chÕun lume di suo raggio, pi che in altra convien che si mova la mente, amando, di ciascun che cerne il vero in che si fonda questa prova. Tal vero a lÕintelletto m•o sterne colui che mi dimostra il primo amore di tutte le sustanze sempiterne. Sternel la voce del verace autore, che dice a Mo•s, di sŽ parlando: ÔIo ti far˜ vedere ogne valoreÕ. Sternilmi tu ancora, incominciando lÕalto preconio che grida lÕarcano di qui lˆ gi sovra ogne altro bandoÈ. E io udiÕ: ÇPer intelletto umano e per autoritadi a lui concorde dÕi tuoi amori a Dio guarda il sovrano. Ma d“ ancor se tu senti altre corde tirarti verso lui, s“ che tu suone con quanti denti questo amor ti mordeÈ. Non fu latente la santa intenzione de lÕaguglia di Cristo, anzi mÕaccorsi dove volea menar mia professione. Per˜ ricominciai: ÇTutti quei morsi che posson far lo cor volgere a Dio, a la mia caritate son concorsi: chŽ lÕessere del mondo e lÕesser mio, la morte chÕel sostenne perchÕ io viva, e quel che spera ogne fedel comÕ io, con la predetta conoscenza viva, tratto mÕhanno del mar de lÕamor torto, e del diritto mÕhan posto a la riva. Le fronde onde sÕinfronda tutto lÕorto de lÕortolano etterno, amÕ io cotanto quanto da lui a lor di bene  portoÈ. S“ comÕ io tacqui, un dolcissimo canto rison˜ per lo cielo, e la mia donna dicea con li altri: ÇSanto, santo, santo!È. E come a lume acuto si disonna per lo spirto visivo che ricorre a lo splendor che va di gonna in gonna, e lo svegliato ci˜ che vede aborre, s“ nesc•a  la sbita vigilia fin che la stimativa non soccorre; cos“ de li occhi miei ogne quisquilia fug˜ Beatrice col raggio dÕi suoi, che rifulgea da pi di mille milia: onde mei che dinanzi vidi poi; e quasi stupefatto domandai dÕun quarto lume chÕio vidi tra noi. E la mia donna: ÇDentro da quei rai vagheggia il suo fattor lÕanima prima che la prima virt creasse maiÈ. Come la fronda che flette la cima nel transito del vento, e poi si leva per la propria virt che la soblima, fecÕ io in tanto in quantÕ ella diceva, stupendo, e poi mi rifece sicuro un disio di parlare ondÕ •o ardeva. E cominciai: ÇO pomo che maturo solo prodotto fosti, o padre antico a cui ciascuna sposa  figlia e nuro, divoto quanto posso a te suppl“co perchŽ mi parli: tu vedi mia voglia, e per udirti tosto non la dicoÈ. Talvolta un animal coverto broglia, s“ che lÕaffetto convien che si paia per lo seguir che face a lui la Õnvoglia; e similmente lÕanima primaia mi facea trasparer per la coverta quantÕ ella a compiacermi ven“a gaia. Indi spir˜: ÇSanzÕ essermi proferta da te, la voglia tua discerno meglio che tu qualunque cosa tՏ pi certa; perchÕ io la veggio nel verace speglio che fa di sŽ pareglio a lÕaltre cose, e nulla face lui di sŽ pareglio. Tu vuogli udir quantÕ  che Dio mi puose ne lÕeccelso giardino, ove costei a cos“ lunga scala ti dispuose, e quanto fu diletto a li occhi miei, e la propria cagion del gran disdegno, e lÕid•oma chÕusai e che fei. Or, figluol mio, non il gustar del legno fu per sŽ la cagion di tanto essilio, ma solamente il trapassar del segno. Quindi onde mosse tua donna Virgilio, quattromilia trecento e due volumi di sol desiderai questo concilio; e vidi lui tornare a tuttÕ i lumi de la sua strada novecento trenta f•ate, mentre chՕo in terra fuÕmi. La lingua chÕio parlai fu tutta spenta innanzi che a lÕovra inconsummabile fosse la gente di Nembr˜t attenta: chŽ nullo effetto mai raz•onabile, per lo piacere uman che rinovella seguendo il cielo, sempre fu durabile. Opera naturale  chÕuom favella; ma cos“ o cos“, natura lascia poi fare a voi secondo che vÕabbella. Pria chÕiÕ scendessi a lÕinfernale ambascia, I sÕappellava in terra il sommo bene onde vien la letizia che mi fascia; e El si chiam˜ poi: e ci˜ convene, chŽ lÕuso dÕi mortali  come fronda in ramo, che sen va e altra vene. Nel monte che si leva pi da lÕonda, fuÕ io, con vita pura e disonesta, da la primÕ ora a quella che seconda, come Õl sol muta quadra, lÕora sestaÈ. Paradiso á Canto XXVII ÔAl Padre, al Figlio, a lo Spirito SantoÕ, cominci˜, Ôgloria!Õ, tutto Õl paradiso, s“ che mÕinebr•ava il dolce canto. Ci˜ chÕio vedeva mi sembiava un riso de lÕuniverso; per che mia ebbrezza intrava per lÕudire e per lo viso. Oh gioia! oh ineffabile allegrezza! oh vita intgra dÕamore e di pace! oh sanza brama sicura ricchezza! Dinanzi a li occhi miei le quattro face stavano accese, e quella che pria venne incominci˜ a farsi pi vivace, e tal ne la sembianza sua divenne, qual diverrebbe Iove, sÕelli e Marte fossero augelli e cambiassersi penne. La provedenza, che quivi comparte vice e officio, nel beato coro silenzio posto avea da ogne parte, quandÕ •o udiÕ: ÇSe io mi trascoloro, non ti maravigliar, chŽ, dicendÕ io, vedrai trascolorar tutti costoro. Quelli chÕusurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio, che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio, fattÕ ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde Õl perverso che cadde di qua s, lˆ gi si placaÈ. Di quel color che per lo sole avverso nube dipigne da sera e da mane, vidÕ •o allora tutto Õl ciel cosperso. E come donna onesta che permane di sŽ sicura, e per lÕaltrui fallanza, pur ascoltando, timida si fane, cos“ Beatrice trasmut˜ sembianza; e tale eclissi credo che Õn ciel fue quando pat“ la supprema possanza. Poi procedetter le parole sue con voce tanto da sŽ trasmutata, che la sembianza non si mut˜ pie: ÇNon fu la sposa di Cristo allevata del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto, per essere ad acquisto dÕoro usata; ma per acquisto dÕesto viver lieto e Sisto e P•o e Calisto e Urbano sparser lo sangue dopo molto fleto. Non fu nostra intenzion chÕa destra mano dÕi nostri successor parte sedesse, parte da lÕaltra del popol cristiano; nŽ che le chiavi che mi fuor concesse, divenisser signaculo in vessillo che contra battezzati combattesse; nŽ chÕio fossi figura di sigillo a privilegi venduti e mendaci, ondÕ io sovente arrosso e disfavillo. In vesta di pastor lupi rapaci si veggion di qua s per tutti i paschi: o difesa di Dio, perchŽ pur giaci? Del sangue nostro Caorsini e Guaschi sÕapparecchian di bere: o buon principio, a che vil fine convien che tu caschi! Ma lÕalta provedenza, che con Scipio difese a Roma la gloria del mondo, soccorrˆ tosto, s“ comÕ io concipio; e tu, figliuol, che per lo mortal pondo ancor gi tornerai, apri la bocca, e non asconder quel chÕio non ascondoÈ. S“ come di vapor gelati fiocca in giuso lÕaere nostro, quando Õl corno de la capra del ciel col sol si tocca, in s vidÕ io cos“ lÕetera addorno farsi e fioccar di vapor tr•unfanti che fatto avien con noi quivi soggiorno. Lo viso mio seguiva i suoi sembianti, e segu“ fin che Õl mezzo, per lo molto, li tolse il trapassar del pi avanti. Onde la donna, che mi vide assolto de lÕattendere in s, mi disse: ÇAdima il viso e guarda come tu seÕ v˜ltoÈ. Da lÕora chՕo avea guardato prima iÕ vidi mosso me per tutto lÕarco che fa dal mezzo al fine il primo clima; s“ chÕio vedea di lˆ da Gade il varco folle dÕUlisse, e di qua presso il lito nel qual si fece Europa dolce carco. E pi mi fora discoverto il sito di questa aiuola; ma Õl sol procedea sotto i mieÕ piedi un segno e pi partito. La mente innamorata, che donnea con la mia donna sempre, di ridure ad essa li occhi pi che mai ardea; e se natura o arte fŽ pasture da pigliare occhi, per aver la mente, in carne umana o ne le sue pitture, tutte adunate, parrebber n•ente verÕ lo piacer divin che mi refulse, quando mi volsi al suo viso ridente. E la virt che lo sguardo mÕindulse, del bel nido di Leda mi divelse, e nel ciel velocissimo mÕimpulse. Le parti sue vivissime ed eccelse s“ uniforme son, chÕiÕ non so dire qual B‘atrice per loco mi scelse. Ma ella, che ved‘a Õl mio disire, incominci˜, ridendo tanto lieta, che Dio parea nel suo volto gioire: ÇLa natura del mondo, che qu•eta il mezzo e tutto lÕaltro intorno move, quinci comincia come da sua meta; e questo cielo non ha altro dove che la mente divina, in che sÕaccende lÕamor che Õl volge e la virt chÕei piove. Luce e amor dÕun cerchio lui comprende, s“ come questo li altri; e quel precinto colui che Õl cinge solamente intende. Non  suo moto per altro distinto, ma li altri son mensurati da questo, s“ come diece da mezzo e da quinto; e come il tempo tegna in cotal testo le sue radici e ne li altri le fronde, omai a te pu˜ esser manifesto. Oh cupidigia che i mortali affonde s“ sotto te, che nessuno ha podere di trarre li occhi fuor de le tue onde! Ben fiorisce ne li uomini il volere; ma la pioggia continŸa converte in bozzacchioni le sosine vere. Fede e innocenza son reperte solo neÕ parvoletti; poi ciascuna pria fugge che le guance sian coperte. Tale, balbuz•endo ancor, digiuna, che poi divora, con la lingua sciolta, qualunque cibo per qualunque luna; e tal, balbuz•endo, ama e ascolta la madre sua, che, con loquela intera, dis•a poi di vederla sepolta. Cos“ si fa la pelle bianca nera nel primo aspetto de la bella figlia di quel chÕapporta mane e lascia sera. Tu, perchŽ non ti facci maraviglia, pensa che Õn terra non  chi governi; onde s“ sv•a lÕumana famiglia. Ma prima che gennaio tutto si sverni per la centesma chՏ lˆ gi negletta, raggeran s“ questi cerchi superni, che la fortuna che tanto sÕaspetta, le poppe volgerˆ uÕ son le prore, s“ che la classe correrˆ diretta; e vero frutto verrˆ dopo Õl fioreÈ. Paradiso á Canto XXVIII Poscia che Õncontro a la vita presente dÕi miseri mortali aperse Õl vero quella che Õmparadisa la mia mente, come in lo specchio fiamma di doppiero vede colui che se nÕalluma retro, prima che lÕabbia in vista o in pensiero, e sŽ rivolge per veder se Õl vetro li dice il vero, e vede chÕel sÕaccorda con esso come nota con suo metro; cos“ la mia memoria si ricorda chÕio feci riguardando neÕ belli occhi onde a pigliarmi fece Amor la corda. E comÕ io mi rivolsi e furon tocchi li miei da ci˜ che pare in quel volume, quandunque nel suo giro ben sÕadocchi, un punto vidi che raggiava lume acuto s“, che Õl viso chÕelli affoca chiuder conviensi per lo forte acume; e quale stella par quinci pi poca, parrebbe luna, locata con esso come stella con stella si coll˜ca. Forse cotanto quanto pare appresso alo cigner la luce che Õl dipigne quando Õl vapor che Õl porta pi  spesso, distante intorno al punto un cerchio dÕigne si girava s“ ratto, chÕavria vinto quel moto che pi tosto il mondo cigne; e questo era dÕun altro circumcinto, e quel dal terzo, e Õl terzo poi dal quarto, dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto. Sopra seguiva il settimo s“ sparto giˆ di larghezza, che Õl messo di Iuno intero a contenerlo sarebbe arto. Cos“ lÕottavo e Õl nono; e chiascheduno pi tardo si movea, secondo chÕera in numero distante pi da lÕuno; e quello avea la fiamma pi sincera cui men distava la favilla pura, credo, per˜ che pi di lei sÕinvera. La donna mia, che mi ved‘a in cura forte sospeso, disse: ÇDa quel punto depende il cielo e tutta la natura. Mira quel cerchio che pi li  congiunto; e sappi che Õl suo muovere  s“ tosto per lÕaffocato amore ondÕ elli  puntoÈ. E io a lei: ÇSe Õl mondo fosse posto con lÕordine chÕio veggio in quelle rote, sazio mÕavrebbe ci˜ che mՏ proposto; ma nel mondo sensibile si puote veder le volte tanto pi divine, quantÕ elle son dal centro pi remote. Onde, se Õl mio disir dee aver fine in questo miro e angelico templo che solo amore e luce ha per confine, udir convienmi ancor come lÕessemplo e lÕessemplare non vanno dÕun modo, chŽ io per me indarno a ci˜ contemploÈ. ÇSe li tuoi diti non sono a tal nodo suffic•enti, non  maraviglia: tanto, per non tentare,  fatto sodo!È. Cos“ la donna mia; poi disse: ÇPiglia quel chÕio ti dicer˜, se vuoÕ saziarti; e intorno da esso tÕassottiglia. Li cerchi corporai sono ampi e arti secondo il pi e Õl men de la virtute che si distende per tutte lor parti. Maggior bontˆ vuol far maggior salute; maggior salute maggior corpo cape, sÕelli ha le parti igualmente compiute. Dunque costui che tutto quanto rape lÕaltro universo seco, corrisponde al cerchio che pi ama e che pi sape: per che, se tu a la virt circonde la tua misura, non a la parvenza de le sustanze che tÕappaion tonde, tu vederai mirabil consequenza di maggio a pi e di minore a meno, in ciascun cielo, a sŸa intelligenzaÈ. Come rimane splendido e sereno lÕemisperio de lÕaere, quando soffia Borea da quella guancia ondÕ  pi leno, per che si purga e risolve la roffia che pria turbava, s“ che Õl ciel ne ride con le bellezze dÕogne sua paroffia; cos“ fecՕo, poi che mi provide la donna mia del suo risponder chiaro, e come stella in cielo il ver si vide. E poi che le parole sue restaro, non altrimenti ferro disfavilla che bolle, come i cerchi sfavillaro. LÕincendio suo seguiva ogne scintilla; ed eran tante, che Õl numero loro pi che Õl doppiar de li scacchi sÕinmilla. Io sentiva osannar di coro in coro al punto fisso che li tiene a li ubi, e terrˆ sempre, neÕ quai sempre fuoro. E quella che ved‘a i pensier dubi ne la mia mente, disse: ÇI cerchi primi tÕhanno mostrato Serafi e Cherubi. Cos“ veloci seguono i suoi vimi, per somigliarsi al punto quanto ponno; e posson quanto a veder son soblimi. Quelli altri amori che Õntorno li vonno, si chiaman Troni del divino aspetto, per che Õl primo ternaro terminonno; e dei saper che tutti hanno diletto quanto la sua veduta si profonda nel vero in che si queta ogne intelletto. Quinci si pu˜ veder come si fonda lÕesser beato ne lÕatto che vede, non in quel chÕama, che poscia seconda; e del vedere  misura mercede, che grazia partorisce e buona voglia: cos“ di grado in grado si procede. LÕaltro ternaro, che cos“ germoglia in questa primavera sempiterna che notturno Ar•ete non dispoglia, perpetŸalemente ÔOsannaÕ sberna con tre melode, che suonano in tree ordini di letizia onde sÕinterna. In essa gerarcia son lÕaltre dee: prima Dominazioni, e poi Virtudi; lÕordine terzo di Podestadi e. Poscia neÕ due penultimi tripudi Principati e Arcangeli si girano; lÕultimo  tutto dÕAngelici ludi. Questi ordini di s tutti sÕammirano, e di gi vincon s“, che verso Dio tutti tirati sono e tutti tirano. E D•onisio con tanto disio a contemplar questi ordini si mise, che li nom˜ e distinse comÕ io. Ma Gregorio da lui poi si divise; onde, s“ tosto come li occhi aperse in questo ciel, di sŽ medesmo rise. E se tanto secreto ver proferse mortale in terra, non voglio chÕammiri: chŽ chi Õl vide qua s gliel discoperse con altro assai del ver di questi giriÈ. Paradiso á Canto XXIX Quando ambedue li figli di Latona, coperti del Montone e de la Libra, fanno de lÕorizzonte insieme zona, quantÕ  dal punto che Õl cen“t inlibra infin che lÕuno e lÕaltro da quel cinto, cambiando lÕemisperio, si dilibra, tanto, col volto di riso dipinto, si tacque B‘atrice, riguardando fiso nel punto che mÕav‘a vinto. Poi cominci˜: ÇIo dico, e non dimando, quel che tu vuoli udir, perchÕ io lÕho visto lˆ Õve sÕappunta ogne ubi e ogne quando. Non per aver a sŽ di bene acquisto, chÕesser non pu˜, ma perchŽ suo splendore potesse, risplendendo, dir ÒSubsistoÓ, in sua etternitˆ di tempo fore, fuor dÕogne altro comprender, come i piacque, sÕaperse in nuovi amor lÕetterno amore. NŽ prima quasi torpente si giacque; chŽ nŽ prima nŽ poscia procedette lo discorrer di Dio sovra questÕ acque. Forma e materia, congiunte e purette, usciro ad esser che non avia fallo, come dÕarco tricordo tre saette. E come in vetro, in ambra o in cristallo raggio resplende s“, che dal venire a lÕesser tutto non  intervallo, cos“ Õl triforme effetto del suo sire ne lÕesser suo raggi˜ insieme tutto sanza distinz•one in essordire. Concreato fu ordine e costrutto a le sustanze; e quelle furon cima nel mondo in che puro atto fu produtto; pura potenza tenne la parte ima; nel mezzo strinse potenza con atto tal vime, che giˆ mai non si divima. Ieronimo vi scrisse lungo tratto di secoli de li angeli creati anzi che lÕaltro mondo fosse fatto; ma questo vero  scritto in molti lati da li scrittor de lo Spirito Santo, e tu te nÕavvedrai se bene agguati; e anche la ragione il vede alquanto, che non concederebbe che Õ motori sanza sua perfezion fosser cotanto. Or sai tu dove e quando questi amori furon creati e come: s“ che spenti nel tuo dis•o giˆ son tre ardori. NŽ giugneriesi, numerando, al venti s“ tosto, come de li angeli parte turb˜ il suggetto dÕi vostri alimenti. LÕaltra rimase, e cominci˜ questÕ arte che tu discerni, con tanto diletto, che mai da circŸir non si diparte. Principio del cader fu il maladetto superbir di colui che tu vedesti da tutti i pesi del mondo costretto. Quelli che vedi qui furon modesti a riconoscer sŽ da la bontate che li avea fatti a tanto intender presti: per che le viste lor furo essaltate con grazia illuminante e con lor merto, si cÕhanno ferma e piena volontate; e non voglio che dubbi, ma sia certo, che ricever la grazia  meritorio secondo che lÕaffetto lՏ aperto. Omai dintorno a questo consistorio puoi contemplare assai, se le parole mie son ricolte, sanzÕ altro aiutorio. Ma perchŽ Õn terra per le vostre scole si legge che lÕangelica natura  tal, che Õntende e si ricorda e vole, ancor dir˜, perchŽ tu veggi pura la veritˆ che lˆ gi si confonde, equivocando in s“ fatta lettura. Queste sustanze, poi che fur gioconde de la faccia di Dio, non volser viso da essa, da cui nulla si nasconde: per˜ non hanno vedere interciso da novo obietto, e per˜ non bisogna rememorar per concetto diviso; s“ che lˆ gi, non dormendo, si sogna, credendo e non credendo dicer vero; ma ne lÕuno  pi colpa e pi vergogna. Voi non andate gi per un sentiero filosofando: tanto vi trasporta lÕamor de lÕapparenza e Õl suo pensiero! E ancor questo qua s si comporta con men disdegno che quando  posposta la divina Scrittura o quando  torta. Non vi si pensa quanto sangue costa seminarla nel mondo e quanto piace chi umilmente con essa sÕaccosta. Per apparer ciascun sÕingegna e face sue invenzioni; e quelle son trascorse daÕ predicanti e Õl Vangelio si tace. Un dice che la luna si ritorse ne la passion di Cristo e sÕinterpuose, per che Õl lume del sol gi non si porse; e mente, chŽ la luce si nascose da sŽ: per˜ a li Spani e a lÕIndi come aÕ Giudei tale eclissi rispuose. Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi quante s“ fatte favole per anno in pergamo si gridan quinci e quindi: s“ che le pecorelle, che non sanno, tornan del pasco pasciute di vento, e non le scusa non veder lo danno. Non disse Cristo al suo primo convento: ÔAndate, e predicate al mondo cianceÕ; ma diede lor verace fondamento; e quel tanto son˜ ne le sue guance, s“ chÕa pugnar per accender la fede de lÕEvangelio fero scudo e lance. Ora si va con motti e con iscede a predicare, e pur che ben si rida, gonfia il cappuccio e pi non si richiede. Ma tale uccel nel becchetto sÕannida, che se Õl vulgo il vedesse, vederebbe la perdonanza di chÕel si confida: per cui tanta stoltezza in terra crebbe, che, sanza prova dÕalcun testimonio, ad ogne promession si correrebbe. Di questo ingrassa il porco santÕ Antonio, e altri assai che sono ancor pi porci, pagando di moneta sanza conio. Ma perchŽ siam digressi assai, ritorci li occhi oramai verso la dritta strada, s“ che la via col tempo si raccorci. Questa natura s“ oltre sÕingrada in numero, che mai non fu loquela nŽ concetto mortal che tanto vada; e se tu guardi quel che si revela per Dan•el, vedrai che Õn sue migliaia determinato numero si cela. La prima luce, che tutta la raia, per tanti modi in essa si recepe, quanti son li splendori a chi sÕappaia. Onde, per˜ che a lÕatto che concepe segue lÕaffetto, dÕamar la dolcezza diversamente in essa ferve e tepe. Vedi lÕeccelso omai e la larghezza de lÕetterno valor, poscia che tanti speculi fatti sÕha in che si spezza, uno manendo in sŽ come davantiÈ. Paradiso á Canto XXX Forse semilia miglia di lontano ci ferve lÕora sesta, e questo mondo china giˆ lÕombra quasi al letto piano, quando Õl mezzo del cielo, a noi profondo, comincia a farsi tal, chÕalcuna stella perde il parere infino a questo fondo; e come vien la chiarissima ancella del sol pi oltre, cos“ Õl ciel si chiude di vista in vista infino a la pi bella. Non altrimenti il tr•unfo che lude sempre dintorno al punto che mi vinse, parendo inchiuso da quel chÕelli Õnchiude, a poco a poco al mio veder si stinse: per che tornar con li occhi a B‘atrice nulla vedere e amor mi costrinse. Se quanto infino a qui di lei si dice fosse conchiuso tutto in una loda, poca sarebbe a fornir questa vice. La bellezza chÕio vidi si trasmoda non pur di lˆ da noi, ma certo io credo che solo il suo fattor tutta la goda. Da questo passo vinto mi concedo pi che giˆ mai da punto di suo tema soprato fosse comico o tragedo: chŽ, come sole in viso che pi trema, cos“ lo rimembrar del dolce riso la mente mia da me medesmo scema. Dal primo giorno chÕiÕ vidi il suo viso in questa vita, infino a questa vista, non mՏ il seguire al mio cantar preciso; ma or convien che mio seguir desista pi dietro a sua bellezza, poetando, come a lÕultimo suo ciascuno artista. Cotal qual io lascio a maggior bando che quel de la mia tuba, che deduce lÕardŸa sua matera terminando, con atto e voce di spedito duce ricominci˜: ÇNoi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel chՏ pura luce: luce intellettŸal, piena dÕamore; amor di vero ben, pien di letizia; letizia che trascende ogne dolzore. Qui vederai lÕuna e lÕaltra milizia di paradiso, e lÕuna in quelli aspetti che tu vedrai a lÕultima giustiziaÈ. Come sbito lampo che discetti li spiriti visivi, s“ che priva da lÕatto lÕocchio di pi forti obietti, cos“ mi circunfulse luce viva, e lasciommi fasciato di tal velo del suo fulgor, che nulla mÕappariva. ÇSempre lÕamor che queta questo cielo accoglie in sŽ con s“ fatta salute, per far disposto a sua fiamma il candeloÈ. Non fur pi tosto dentro a me venute queste parole brievi, chÕio compresi me sormontar di soprÕ a mia virtute; e di novella vista mi raccesi tale, che nulla luce  tanto mera, che li occhi miei non si fosser difesi; e vidi lume in forma di rivera fulvido di fulgore, intra due rive dipinte di mirabil primavera. Di tal fiumana uscian faville vive, e dÕogne parte si mettien neÕ fiori, quasi rubin che oro circunscrive; poi, come inebr•ate da li odori, riprofondavan sŽ nel miro gurge, e sÕuna intrava, unÕaltra nÕuscia fori. ÇLÕalto disio che mo tÕinfiamma e urge, dÕaver notizia di ci˜ che tu vei, tanto mi piace pi quanto pi turge; ma di questÕ acqua convien che tu bei prima che tanta sete in te si saziÈ: cos“ mi disse il sol de li occhi miei. Anche soggiunse: ÇIl fiume e li topazi chÕentrano ed escono e Õl rider de lÕerbe son di lor vero umbriferi prefazi. Non che da sŽ sian queste cose acerbe; ma  difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbeÈ. Non  fantin che s“ sbito rua col volto verso il latte, se si svegli molto tardato da lÕusanza sua, come fecÕ io, per far migliori spegli ancor de li occhi, chinandomi a lÕonda che si deriva perchŽ vi sÕimmegli; e s“ come di lei bevve la gronda de le palpebre mie, cos“ mi parve di sua lunghezza divenuta tonda. Poi, come gente stata sotto larve, che pare altro che prima, se si sveste la sembianza non sŸa in che disparve, cos“ mi si cambiaro in maggior feste li fiori e le faville, s“ chÕio vidi ambo le corti del ciel manifeste. O isplendor di Dio, per cuÕ io vidi lÕalto tr•unfo del regno verace, dammi virt a dir comÕ •o il vidi! Lume  lˆ s che visibile face lo creatore a quella creatura che solo in lui vedere ha la sua pace. EÕ si distende in circular figura, in tanto che la sua circunferenza sarebbe al sol troppo larga cintura. Fassi di raggio tutta sua parvenza reflesso al sommo del mobile primo, che prende quindi vivere e potenza. E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando  nel verde e neÕ fioretti opimo, s“, soprastando al lume intorno intorno, vidi specchiarsi in pi di mille soglie quanto di noi lˆ s fatto ha ritorno. E se lÕinfimo grado in sŽ raccoglie s“ grande lume, quanta  la larghezza di questa rosa ne lÕestreme foglie! La vista mia ne lÕampio e ne lÕaltezza non si smarriva, ma tutto prendeva il quanto e Õl quale di quella allegrezza. Presso e lontano, l“, nŽ pon nŽ leva: chŽ dove Dio sanza mezzo governa, la legge natural nulla rileva. Nel giallo de la rosa sempiterna, che si digrada e dilata e redole odor di lode al sol che sempre verna, qual  colui che tace e dicer vole, mi trasse B‘atrice, e disse: ÇMira quanto  Õl convento de le bianche stole! Vedi nostra cittˆ quantÕ ella gira; vedi li nostri scanni s“ ripieni, che poca gente pi ci si disira. E Õn quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che giˆ vՏ s posta, prima che tu a queste nozze ceni, sederˆ lÕalma, che fia gi agosta, de lÕalto Arrigo, chÕa drizzare Italia verrˆ in prima chÕella sia disposta. La cieca cupidigia che vÕammalia simili fatti vÕha al fantolino che muor per fame e caccia via la balia. E fia prefetto nel foro divino allora tal, che palese e coverto non anderˆ con lui per un cammino. Ma poco poi sarˆ da Dio sofferto nel santo officio; chÕel sarˆ detruso lˆ dove Simon mago  per suo merto, e farˆ quel dÕAlagna intrar pi giusoÈ. Paradiso á Canto XXXI In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa; ma lÕaltra, che volando vede e canta la gloria di colui che la Õnnamora e la bontˆ che la fece cotanta, s“ come schiera dÕape che sÕinfiora una f•ata e una si ritorna lˆ dove suo laboro sÕinsapora, nel gran fior discendeva che sÕaddorna di tante foglie, e quindi risaliva lˆ dove Õl sŸo amor sempre soggiorna. Le facce tutte avean di fiamma viva e lÕali dÕoro, e lÕaltro tanto bianco, che nulla neve a quel termine arriva. Quando scendean nel fior, di banco in banco porgevan de la pace e de lÕardore chÕelli acquistavan ventilando il fianco. NŽ lÕinterporsi tra Õl disopra e Õl fiore di tanta moltitudine volante impediva la vista e lo splendore: chŽ la luce divina  penetrante per lÕuniverso secondo chՏ degno, s“ che nulla le puote essere ostante. Questo sicuro e gaud•oso regno, frequente in gente antica e in novella, viso e amore avea tutto ad un segno. O trina luce che Õn unica stella scintillando a lor vista, s“ li appaga! guarda qua giuso a la nostra procella! Se i barbari, venendo da tal plaga che ciascun giorno dÕElice si cuopra, rotante col suo figlio ondÕ ella  vaga, veggendo Roma e lÕardŸa sua opra, stupefaciensi, quando Laterano a le cose mortali and˜ di sopra; •o, che al divino da lÕumano, a lÕetterno dal tempo era venuto, e di Fiorenza in popol giusto e sano, di che stupor dovea esser compiuto! Certo tra esso e Õl gaudio mi facea libito non udire e starmi muto. E quasi peregrin che si ricrea nel tempio del suo voto riguardando, e spera giˆ ridir comÕ ello stea, su per la viva luce passeggiando, menava •o li occhi per li gradi, mo s, mo gi e mo recirculando. Ved‘a visi a caritˆ sŸadi, dÕaltrui lume fregiati e di suo riso, e atti ornati di tutte onestadi. La forma general di paradiso giˆ tutta m•o sguardo avea compresa, in nulla parte ancor fermato fiso; e volgeami con voglia r•accesa per domandar la mia donna di cose di che la mente mia era sospesa. Uno intend‘a, e altro mi rispuose: credea veder Beatrice e vidi un sene vestito con le genti glor•ose. Diffuso era per li occhi e per le gene di benigna letizia, in atto pio quale a tenero padre si convene. E ÇOvÕ  ella?È, sbito dissÕ io. OndÕ elli: ÇA terminar lo tuo disiro mosse Beatrice me del loco mio; e se riguardi s nel terzo giro dal sommo grado, tu la rivedrai nel trono che suoi merti le sortiroÈ. Sanza risponder, li occhi s levai, e vidi lei che si facea corona reflettendo da sŽ li etterni rai. Da quella reg•on che pi s tona occhio mortale alcun tanto non dista, qualunque in mare pi gi sÕabbandona, quanto l“ da Beatrice la mia vista; ma nulla mi facea, chŽ sŸa effige non discend‘a a me per mezzo mista. ÇO donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute in inferno lasciar le tue vestige, di tante cose quantÕ iÕ ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontate riconosco la grazia e la virtute. Tu mÕhai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tuttÕ i modi che di ci˜ fare avei la potestate. La tua magnificenza in me custodi, s“ che lÕanima mia, che fattÕ hai sana, piacente a te dal corpo si disnodiÈ. Cos“ orai; e quella, s“ lontana come parea, sorrise e riguardommi; poi si torn˜ a lÕetterna fontana. E Õl santo sene: ÇAcci˜ che tu assommi perfettamenteÈ, disse, Çil tuo cammino, a che priego e amor santo mandommi, vola con li occhi per questo giardino; chŽ veder lui tÕacconcerˆ lo sguardo pi al montar per lo raggio divino. E la regina del cielo, ondÕ •o ardo tutto dÕamor, ne farˆ ogne grazia, per˜ chÕiÕ sono il suo fedel BernardoÈ. Qual  colui che forse di Croazia viene a veder la Veronica nostra, che per lÕantica fame non sen sazia, ma dice nel pensier, fin che si mostra: ÔSegnor mio Ies Cristo, Dio verace, or fu s“ fatta la sembianza vostra?Õ; tal era io mirando la vivace caritˆ di colui che Õn questo mondo, contemplando, gust˜ di quella pace. ÇFigliuol di grazia, questÕ esser giocondoÈ, cominci˜ elli, Çnon ti sarˆ noto, tenendo li occhi pur qua gi al fondo; ma guarda i cerchi infino al pi remoto, tanto che veggi seder la regina cui questo regno  suddito e devotoÈ. Io levai li occhi; e come da mattina la parte or•ental de lÕorizzonte soverchia quella dove Õl sol declina, cos“, quasi di valle andando a monte con li occhi, vidi parte ne lo stremo vincer di lume tutta lÕaltra fronte. E come quivi ove sÕaspetta il temo che mal guid˜ Fetonte, pi sÕinfiamma, e quinci e quindi il lume si fa scemo, cos“ quella pacifica oriafiamma nel mezzo sÕavvivava, e dÕogne parte per igual modo allentava la fiamma; e a quel mezzo, con le penne sparte, vidÕ io pi di mille angeli festanti, ciascun distinto di fulgore e dÕarte. Vidi a lor giochi quivi e a lor canti ridere una bellezza, che letizia era ne li occhi a tutti li altri santi; e sÕio avessi in dir tanta divizia quanta ad imaginar, non ardirei lo minimo tentar di sua delizia. Bernardo, come vide li occhi miei nel caldo suo caler fissi e attenti, li suoi con tanto affetto volse a lei, che Õ miei di rimirar fŽ pi ardenti. Paradiso á Canto XXXII Affetto al suo piacer, quel contemplante libero officio di dottore assunse, e cominci˜ queste parole sante: ÇLa piaga che Maria richiuse e unse, quella chՏ tanto bella daÕ suoi piedi  colei che lÕaperse e che la punse. Ne lÕordine che fanno i terzi sedi, siede Rachel di sotto da costei con B‘atrice, s“ come tu vedi. Sarra e Rebecca, Iud“t e colei che fu bisava al cantor che per doglia del fallo disse ÔMiserere meiÕ, puoi tu veder cos“ di soglia in soglia gi digradar, comÕ io chÕa proprio nome vo per la rosa gi di foglia in foglia. E dal settimo grado in gi, s“ come infino ad esso, succedono Ebree, dirimendo del fior tutte le chiome; perchŽ, secondo lo sguardo che fŽe la fede in Cristo, queste sono il muro a che si parton le sacre scalee. Da questa parte onde Õl fiore  maturo di tutte le sue foglie, sono assisi quei che credettero in Cristo venturo; da lÕaltra parte onde sono intercisi di v˜ti i semicirculi, si stanno quei chÕa Cristo venuto ebber li visi. E come quinci il glor•oso scanno de la donna del cielo e li altri scanni di sotto lui cotanta cerna fanno, cos“ di contra quel del gran Giovanni, che sempre santo Õl diserto e Õl martiro sofferse, e poi lÕinferno da due anni; e sotto lui cos“ cerner sortiro Francesco, Benedetto e Augustino e altri fin qua gi di giro in giro. Or mira lÕalto proveder divino: chŽ lÕuno e lÕaltro aspetto de la fede igualmente empierˆ questo giardino. E sappi che dal grado in gi che fiede a mezzo il tratto le due discrezioni, per nullo proprio merito si siede, ma per lÕaltrui, con certe condizioni: chŽ tutti questi son spiriti ascolti prima chÕavesser vere elez•oni. Ben te ne puoi accorger per li volti e anche per le voci pŸerili, se tu li guardi bene e se li ascolti. Or dubbi tu e dubitando sili; ma io discioglier˜ Õl forte legame in che ti stringon li pensier sottili. Dentro a lÕampiezza di questo reame casŸal punto non puote aver sito, se non come tristizia o sete o fame: chŽ per etterna legge  stabilito quantunque vedi, s“ che giustamente ci si risponde da lÕanello al dito; e per˜ questa festinata gente a vera vita non  sine causa intra sŽ qui pi e meno eccellente. Lo rege per cui questo regno pausa in tanto amore e in tanto diletto, che nulla volontˆ  di pi ausa, le menti tutte nel suo lieto aspetto creando, a suo piacer di grazia dota diversamente; e qui basti lÕeffetto. E ci˜ espresso e chiaro vi si nota ne la Scrittura santa in quei gemelli che ne la madre ebber lÕira commota. Per˜, secondo il color dÕi capelli, di cotal grazia lÕaltissimo lume degnamente convien che sÕincappelli. Dunque, sanza mercŽ di lor costume, locati son per gradi differenti, sol differendo nel primiero acume. Bastavasi neÕ secoli recenti con lÕinnocenza, per aver salute, solamente la fede dÕi parenti; poi che le prime etadi fuor compiute, convenne ai maschi a lÕinnocenti penne per circuncidere acquistar virtute; ma poi che Õl tempo de la grazia venne, sanza battesmo perfetto di Cristo tale innocenza lˆ gi si ritenne. Riguarda omai ne la faccia che a Cristo pi si somiglia, chŽ la sua chiarezza sola ti pu˜ disporre a veder CristoÈ. Io vidi sopra lei tanta allegrezza piover, portata ne le menti sante create a trasvolar per quella altezza, che quantunque io avea visto davante, di tanta ammirazion non mi sospese, nŽ mi mostr˜ di Dio tanto sembiante; e quello amor che primo l“ discese, cantando ÔAve, Maria, grat•a plenaÕ, dinanzi a lei le sue ali distese. Rispuose a la divina cantilena da tutte parti la beata corte, s“ chÕogne vista sen fŽ pi serena. ÇO santo padre, che per me comporte lÕesser qua gi, lasciando il dolce loco nel qual tu siedi per etterna sorte, qual  quellÕ angel che con tanto gioco guarda ne li occhi la nostra regina, innamorato s“ che par di foco?È. Cos“ ricorsi ancora a la dottrina di colui chÕabbelliva di Maria, come del sole stella mattutina. Ed elli a me: ÇBaldezza e leggiadria quantÕ esser puote in angelo e in alma, tutta  in lui; e s“ volem che sia, perchÕ elli  quelli che port˜ la palma giuso a Maria, quando Õl Figliuol di Dio carcar si volse de la nostra salma. Ma vieni omai con li occhi s“ comÕ io andr˜ parlando, e nota i gran patrici di questo imperio giustissimo e pio. Quei due che seggon lˆ s pi felici per esser propinquissimi ad Agusta, son dÕesta rosa quasi due radici: colui che da sinistra le sÕaggiusta  il padre per lo cui ardito gusto lÕumana specie tanto amaro gusta; dal destro vedi quel padre vetusto di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi raccomand˜ di questo fior venusto. E quei che vide tutti i tempi gravi, pria che morisse, de la bella sposa che sÕacquist˜ con la lancia e coi clavi, siede lunghÕ esso, e lungo lÕaltro posa quel duca sotto cui visse di manna la gente ingrata, mobile e retrosa. Di contrÕ a Pietro vedi sedere Anna, tanto contenta di mirar sua figlia, che non move occhio per cantare osanna; e contro al maggior padre di famiglia siede Lucia, che mosse la tua donna quando chinavi, a rovinar, le ciglia. Ma perchŽ Õl tempo fugge che tÕassonna, qui farem punto, come buon sartore che comÕ elli ha del panno fa la gonna; e drizzeremo li occhi al primo amore, s“ che, guardando verso lui, pentri quantÕ  possibil per lo suo fulgore. Veramente, ne forse tu tÕarretri movendo lÕali tue, credendo oltrarti, orando grazia conven che sÕimpetri grazia da quella che puote aiutarti; e tu mi seguirai con lÕaffezione, s“ che dal dicer mio lo cor non partiÈ. E cominci˜ questa santa orazione: Paradiso á Canto XXXIII ÇVergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta pi che creatura, termine fisso dÕetterno consiglio, tu seÕ colei che lÕumana natura nobilitasti s“, che Õl suo fattore non disdegn˜ di farsi sua fattura. Nel ventre tuo si raccese lÕamore, per lo cui caldo ne lÕetterna pace cos“  germinato questo fiore. Qui seÕ a noi merid•ana face di caritate, e giuso, intra Õ mortali, seÕ di speranza fontana vivace. Donna, seÕ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua dis•anza vuol volar sanzÕ ali. La tua benignitˆ non pur soccorre a chi domanda, ma molte f•ate liberamente al dimandar precorre. In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te sÕaduna quantunque in creatura  di bontate. Or questi, che da lÕinfima lacuna de lÕuniverso infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi pi alto verso lÕultima salute. E io, che mai per mio veder non arsi pi chÕiÕ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, perchŽ tu ogne nube li disleghi di sua mortalitˆ coÕ prieghi tuoi, s“ che Õl sommo piacer li si dispieghi. Ancor ti priego, regina, che puoi ci˜ che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi. Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beati per li miei prieghi ti chiudon le mani!È. Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne lÕorator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; indi a lÕetterno lume sÕaddrizzaro, nel qual non si dee creder che sÕinvii per creatura lÕocchio tanto chiaro. E io chÕal fine di tuttÕ i disii appropinquava, s“ comÕ io dovea, lÕardor del desiderio in me finii. Bernardo mÕaccennava, e sorridea, perchÕ io guardassi suso; ma io era giˆ per me stesso tal qual ei volea: chŽ la mia vista, venendo sincera, e pi e pi intrava per lo raggio de lÕalta luce che da sŽ  vera. Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che Õl parlar mostra, chÕa tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio. Qual  colŸi che sognando vede, che dopo Õl sogno la passione impressa rimane, e lÕaltro a la mente non riede, cotal son io, chŽ quasi tutta cessa mia vis•one, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. Cos“ la neve al sol si disigilla; cos“ al vento ne le foglie levi si perdea la sentenza di Sibilla. O somma luce che tanto ti levi daÕ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, chÕuna favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente; chŽ, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi, pi si conceperˆ di tua vittoria. Io credo, per lÕacume chÕio soffersi del vivo raggio, chÕiÕ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. EÕ mi ricorda chÕio fui pi ardito per questo a sostener, tanto chÕiÕ giunsi lÕaspetto mio col valore infinito. Oh abbondante grazia ondÕ io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi! Nel suo profondo vidi che sÕinterna, legato con amore in un volume, ci˜ che per lÕuniverso si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ci˜ chÕiÕ dico  un semplice lume. La forma universal di questo nodo credo chÕiÕ vidi, perchŽ pi di largo, dicendo questo, mi sento chÕiÕ godo. Un punto solo mՏ maggior letargo che venticinque secoli a la Õmpresa che fŽ Nettuno ammirar lÕombra dÕArgo. Cos“ la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa. A quella luce cotal si diventa, che volgersi da lei per altro aspetto  impossibil che mai si consenta; per˜ che Õl ben, chՏ del volere obietto, tutto sÕaccoglie in lei, e fuor di quella  defettivo ci˜ chՏ l“ perfetto. Omai sarˆ pi corta mia favella, pur a quel chÕio ricordo, che dÕun fante che bagni ancor la lingua a la mammella. Non perchŽ pi chÕun semplice sembiante fosse nel vivo lume chÕio mirava, che tal  sempre qual sÕera davante; ma per la vista che sÕavvalorava in me guardando, una sola parvenza, mutandomÕ io, a me si travagliava. Ne la profonda e chiara sussistenza de lÕalto lume parvermi tre giri di tre colori e dÕuna contenenza; e lÕun da lÕaltro come iri da iri parea reflesso, e Õl terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri. Oh quanto  corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel chÕiÕ vidi,  tanto, che non basta a dicer ÔpocoÕ. O luce etterna che sola in te sidi, sola tÕintendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi! Quella circulazion che s“ concetta pareva in te come lume reflesso, da li occhi miei alquanto circunspetta, dentro da sŽ, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che Õl mio viso in lei tutto era messo. Qual  Õl geomtra che tutto sÕaffige per misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ondÕ elli indige, tal era io a quella vista nova: veder voleva come si convenne lÕimago al cerchio e come vi sÕindova; ma non eran da ci˜ le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne. A lÕalta fantasia qui manc˜ possa; ma giˆ volgeva il mio disio e Õl velle, s“ come rota chÕigualmente  mossa, lÕamor che move il sole e lÕaltre stelle. - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - TAVOLA DEI CARATTERI SPECIALI TABLE OF SPECIAL CHARACTERS ˆ = a grave  = e grave “ = i grave ˜ = o grave  = u grave Ž = e acute — = o acute Š = a uml ‘ = e uml • = i uml š = o uml Ÿ = u uml é = E grave è = E uml ì = I uml Ç = left angle quotation mark È = right angle quotation mark Ò = left double quotation mark Ó = right double quotation mark Ô = left single quotation mark Õ = right single quotation mark Ñ = em dash á = middot . . . = ellipsis - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - TESTO TRATTO DA TEXT ADAPTED FROM Dante Alighieri. La Commedia secondo lÕantica vulgata a cura di Giorgio Petrocchi. Edizione Nazionale della Societˆ Dantesca Italiana Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 1966-7.

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